PARTITUREGiulio Iovine

Il palazzo di Arnheim

PARTITUREGiulio Iovine
Il palazzo di Arnheim

Di tanto in tanto ancora mi chiedo quando fu il momento preciso in cui Cecilia prese quella decisione. Le possibilità sono due. La prima: aveva già preso la decisione molto prima di ricevere l’invito di Arnheim, quel lunedì di dicembre, per una festa nel suo palazzo la sera di venerdì; il fatto di essere invitata le diede semplicemente l’occasione che le serviva. La seconda è che non avesse mai nemmeno pensato di chiedere ad Arnheim quello che poi gli chiese: l’idea le sarebbe venuta vedendo l’invito nella buchetta della posta. Onestamente non lo so. Non mi aiuta il fatto che – sospetto – non lo sappia Cecilia per prima, e che – e di questo sono sicuro – del problema le importi poco o niente.

Si svegliò la mattina di venerdì (quel venerdì) nel suo attico in centro, un posto bellissimo di cui non poteva importarle di meno. Aveva sognato un misto tra la serie tv che aveva visto la sera prima e un orribile incubo in cui si era sbagliata, era tutta una sua fantasia, e non c’era nessun invito da parte di Arnheim. Guardò il comodino. No, che fortuna, la lettera era lì.

Stette attenta, mentre si alzava, a non mettere il piede sul computer – guardava le serie tv a letto per stordirsi abbastanza da dormire – e sui sacchetti di carta con i resti del sushi o della pizza che si mangiava ogni sera, sempre a letto. Forse dovrei buttare via qualcosa, pensò mentre con un calcio mandava a terra una lattina di coca cola – il pavimento comincia a diventare appiccicoso. Ma che me ne frega? Stasera sono da Arnheim. E fu con questo pensiero che riuscì a entrare in cucina e aprire il frigo per fare colazione.

Ma durò poco. Mentre tirava fuori il latte e lo versava nella tazza il pensiero le piombò in testa come un pop-up su un sito di film da scaricare gratis: Arnheim non risolverà niente. Tornerò da casa sua e sarà tutto come prima. Per sempre! Per sempre! Il latte non aveva senso. Il flacone non aveva senso. I biscotti, non ne parliamo. Cecilia si guardò intorno terrorizzata. Era la sua cucina, ma ogni atomo della sua cucina era pieno di quella cosa morbosa nella sua testa, la sua testa piena di cose morbose era grande come la cucina, macché, come la casa intera. Pianse. Arnheim non avrebbe risolto niente.

Doveva farlo, pensò mentre buttava la tazza nel lavandino e si dimenticava di rimettere il latte in frigo. (O forse non gliene fregava più.) La macchia di latte sul tavolo della cucina – la sedia in mezzo alle palle, quasi inciampava – il bagno, il bidet, l’acqua bollente sulle cosce – non c’era uno spazio libero dal male, non c’era un minuto di pace. Si alzò dal bidet con un urlo da scimmia e tornò al suo comodino – la lettera con l’invito di Arnheim! Doveva funzionare: doveva trovare una soluzione. Ma doveva anche crederci. C’era tutta una giornata davanti in cui doveva crederci fortissimo, sennò come ne sarebbe uscita? Si vestì, mutande, calzini, il tailleur – la serie di azioni non era ancora del tutto automatica e per un po’ le inibì il pianto. Anche la lenta scelta delle pillole per quel giorno – le scatoline allineate sul frigorifero – riuscirono a tenerle occupata la testa per una preziosa mezz’ora. Finché non mi spezzo un braccio da sola per non sentire il rumore della mia testa, va sempre bene. Sempre che io sappia spezzarmi un braccio da sola, pensò Cecilia uscendo di casa. Come si farà? Accese il motore della macchina, ripensò e ripeté ad alta voce la serie di riunioni che aveva quel giorno, una dietro l’altra come minuscoli ostacoli su una strada sgombra. Li poté ripetere sei volte e mezzo prima di arrivare in vista del grattacielo dove lavorava.

Prendi fiato, buttati nell’acqua e stasera risolvi tutto, pensò. Quando ero piccola e me lo diceva la mia mamma ci credevo e mi calmavo subito. Il suono del suo carillon preferito e l’odore della sua vestaglia, ecco cosa mi ricordo adesso. Ma non c’è più lei a dirmi che stasera risolvo tutto – e in quel momento l’ascensore si aprì sul centoventisettesimo piano.

Cecilia guardò a lungo la moquette blu oceano a losanghe dorate. Aveva il potere di distrarla. Stava tutto lì. Tieni occupato il cervello in qualcosa, attacca il motore a una cinghia di trasmissione purchessia, in modo che faccia girare una ruota e non giri a vuoto. Il gioco delle riunioni funzionò fino all’ora di pranzo. Dal suo ufficio si preparava, andava in riunione, parlava o ascoltava – se doveva parlare si atteneva al powerpoint e ai dati che aveva alla mano, altrimenti stava zitta – aveva un’autonomia di mezz’ora, passata la quale cominciava a innervosirsi, muoveva freneticamente la gamba sotto il tavolo di vetro, si alzava fingendo di andare alla finestra, e infine – a riunione sciolta – tornava di corsa al suo studio e riprendeva a piangere a dirotto. Andrà tutto bene, Cecilia, si ripeteva, e poi ripensava al carillon di sua madre e piangeva più forte. Le piccole cose non la lasciavano mai: andava a controllare che la porta dello studio fosse chiusa a chiave e nessuno entrasse a sorpresa – Marco a volte lo faceva – oppure che nel vassoio sulla scrivania ci fossero ancora le gelatine alla frutta – oppure che la ciabatta con i cavi fosse girata per il verso giusto. Riusciva, passandosi il braccio sul viso, a rendere la vista limpida a sufficienza per distinguere i particolari. Poi la piccola incombenza finiva e lei si metteva seduta per terra, schiena al muro, e giù singhiozzi e ululati; una bestia ferita a morte in un bosco immenso in cui è rimasta sola.

Di tanto in tanto le toccava andare in bagno, o passare alla macchinetta del caffè in fondo al corridoio per un tè caldo. Nessuno la guardava in faccia, o almeno se la guardavano facevano discretamente finta di non vedere i suoi occhi rossi, gonfi e molli come cipolle in padella. Ma successe a un certo punto che un collega seduto alla sua scrivania la fermasse mentre andava per il corridoio, e le chiedesse aiuto per una questione. Cecilia si mise nell’ordine di idee che in cinque, dieci minuti se la sarebbe cavata e si avvicinò alla scrivania del collega.

- Oddio, Cecilia, che occhi che hai.

- Tossisco da stamattina. Credo di essere allergica alla moquette.

- Un bel guaio. Qui c’è solo moquette.

- Vero? Un disastro. Qual è il problema?

Era un problema semplice, che non richiedeva di pensarci troppo. Cecilia, in piedi accanto al collega seduto, prese a spiegargli tutto puntando il dito sullo schermo del portatile, e non si accorse di Marco che si avvicinava da dietro finché non vide la sua mano scattare sulla scrivania, proprio al suo fianco, e acchiappare la busta aperta con dentro l’invito di Arnheim per quella sera.

Cecilia se la portava dietro per farsi forza. L’aveva in mano quando il collega l’aveva fermata nel corridoio, e senza pensarci l’aveva appoggiata sulla scrivania mentre gli spiegava. Già rimpiangeva il contatto con quella carta un po’ crespa, odorosa di legno, forse di spezie, di piume – ed ecco che Marco gliela prendeva. D’istinto, gli bloccò il polso.

- Ehi ehi ehi, scusa, non volevo. Ho visto la busta aperta e pensavo fosse carta da buttare. Ciao Cecilia, ciao Emilio.

- Ciao Marco.

- Ciao Marco. La busta non è da buttare. È mia.

- Scusa.

E l’appoggiò nuovamente sul tavolo. Cecilia se la mise subito in tasca.

- Figurati - rispose. – Come va?

- Bene. Che stavate facendo?

- Aiutavo Emilio con…

E via dicendo. Chiacchiere. Cecilia finì di spiegare, prese il grazie di Emilio e tornò in ufficio. Marco la tallonò per un tratto.

- Non per farmi i fatti tuoi, ma ho letto bene? Sulla busta c’era il nome Arnheim?

- Bravo. Proprio quello.

- Mi ricorda qualcosa. C’era un racconto di Poe? The Dominion of Arnheim? E poi quel quadro di Magritte, quello con l’aquila a forma di montagna?

- O la montagna a forma di aquila, dipende da dove decidi di guardarlo. Bravissimo, ne sai un bel po’.

- Pochissimo rispetto a te. Ho sempre pensato che tu fossi una ragazza davvero specia…

Cecilia lo salutò e gli chiuse la porta in faccia. Non adesso, non ora che cado a pezzi. Ma mi hai vista in faccia? Evidentemente no. Cecilia, andrà tutto bene – e giù singhiozzi, accovacciata ai piedi della porta chiusa.

L’ora di pranzo, altre riunioni; bussò alla porta una delle sue responsabili.

  • - Cecilia, posso?

- Elvira! Accomodati.

Dieci minuti, pensò Cecilia, dieci minuti li posso reggere. Dopo bisognerà che trovi una scusa. Quando arriva stasera?

Elvira sedette alla scrivania: – Oggi con Martucci e Bedini abbiamo parlato di te.

- Di me?

- Sì. Perdonami se sono troppo diretta ma non saprei come altro dirtelo. All’azienda non fa piacere, anzi francamente fa più danno che altro, se un dipendente è depresso. Intendo in senso clinico. Tu lavori bene e su questo non abbiamo niente di che lamentarci. Ma abbiamo impostato molte delle nostre politiche sul benessere psicologico e sulla soddisfazione personale dei collaboratori. E avere sul groppone una dirigente che ormai non riesce più a nascondere il suo disturbo mentale ci fa fare una figuraccia. Mi devo impicciare dei fatti tuoi. Ti curi?

- Sì.

- Come?

- Terapia con uno psichiatra e cocktail di farmaci per cavalli.

- Da quanto?

- Ormai dieci anni.

- Mi pare che non funzioni.

- Ho alti e bassi.

- Ora non sta funzionando.

- Ci vuole tempo, immagino.

- Di tempo mi pare che ne hai avuto abbastanza.

- Ci sono problemi su come lavoro?

- Ti ho già detto di no. È un problema di immagine. A questo proposito, l’azienda offre un servizio di supporto psicologico. Lo sai.

- Certo che lo so. Se ti dicessi che da questo fine settimana il problema non esisterà più?

- Ne sarei felicissima, ma dubito che sia realistico, a meno che non ti spari in bocca.

- Se vuoi ti faccio leggere il mio ultimo referto. I dottori dicono che non sono ad alto rischio di suicidio.

- Ficcanasare nella tua vita privata non mi interessa. Mi interessa che tu stia meglio. Possibilmente, grazie all’azienda. Se quello che stai facendo per curarti non funziona, cambia sistema. Se vuoi avvalerti del nostro supporto psicologico, prego. Se non ti va, padronissima. Ma porta a casa qualche risultato.

- È un disturbo mentale, Elvira. Non va via con la bacchetta magica.

- No. Ma con un minimo di sforzo sì. Buona serata, Cecilia.

Si alzò e uscì dalla stanza. Cecilia ebbe appena il tempo di risponderle buonasera fra i denti, ed era scomparsa dietro la porta chiusa. La rivide poche ore dopo, mentre entrava nell’ascensore a fine giornata, imbozzolata nel suo cappotto. Elvira stava discutendo con Marco ed Emilio accanto alla macchinetta del caffè. Nel vederla entrare nell’ascensore, la salutarono con un sorriso tirato. Cecilia uscì dalla porta di vetro del suo grattacielo proprio mentre cominciava la prima nevicata di dicembre.

Risalì verso il piano del grattacielo dove stava di casa nel cono di luce della lampada dell’ascensore. Era sola. Sentì di essere una goccia di luce che saliva come un proiettile verso l’alto, circondata dal buio del mondo non ancora creato. C’era un tempo libero dalla sofferenza? Un luogo dell’universo dove poter essere Cecilia senza voler morire? Forse solo nel palazzo di Arnheim. Aprì la porta di casa. Era passata la colf e si era data da fare: pareva una casa vera e non il troiaio che di solito Cecilia la rendeva lasciando per terra i vestiti, bucce di anguria, boccette e confezioni di farmaci, borsine con i resti del sushi. Si tolse le scarpe, poi il cappotto – che abbandonò per terra lì dove si trovava – poi le calze, il tailleur, la biancheria – tenne solo il fermaglio per i capelli. Entrò in bagno senza pensarci, si fece una doccia bollente, si passò il sapone sui capelli biondi con rabbia. Uscì, si asciugò, spense la luce e uscì anche dal bagno. Nuda, le luci di casa spente, prese dalla tasca del cappotto l’invito per quella sera, e si addentrò tra le stanze deserte, verso il salotto. La grande finestra si apriva su una panoramica della città illuminata. Ne veniva per tutta la stanza una luce rosa e malaticcia, come quella delle nuvole quando riflettono la luce artificiale degli insediamenti umani. Cecilia aprì la finestra e uscì sul balcone; nevicava ancora. Fu morsa dal gelo come da un leone che aspettasse di sbranarla, eppure quel dolore le diede una mano – la fece star lì con la testa, la distrasse per quell’attimo dalla ferocia del suo male, quel tanto che bastava a porgere verso l’alto, al cielo nuvoloso, l’invito per quella sera. Che, come fu in contatto con l’aria e più in alto di Cecilia, scomparve dalla sua mano in una scintilla, e mandò una scarica di fulmine attraverso la tenebra di dicembre. Cecilia smise di sentire il freddo che le mordeva la pelle nuda. I piedi si staccarono da terra. Guardò verso il basso, e vide il balcone allontanarsi sotto le sue gambe, i grattacieli scorrerle a fianco, le vie sguisciare come lucertole fuori dal suo campo visivo. Era in volo verso il palazzo.

Presto anche la città scomparve dalla sua vista. Salì più in alto delle nuvole e della neve, portata dal volere del suo ospite in una regione buia, assordata dai venti, dove le nubi gonfie di neve facevano da pavimento, e la luna e le stelle da gelido tetto infinito. Solo allora guardò verso l’alto, e vide il cielo aprirsi, carta bruciata da una fiamma; e le stelle allungarsi, fondersi, e l’azzurro di un mattino perenne allargarsi qui e lì davanti a lei. Trasportata come da un vortice, corse a decine e decine di metri al secondo per la pianura celeste che si era aperta per farla passare – sotto di lei le montagne si estendevano fino all’orizzonte. Il vortice parve sterzare e cambiare rotta: ed ecco, sospeso nell’aria lontana, il palazzo di Arnheim.

Doveva essere perlomeno la quinta volta che ci andava, e nulla di quello che le accadeva era nuovo per lei. Lo aveva accettato la prima volta come una di quelle realtà di cui non si parla mai con nessuno, e che puoi convincerti che siano parte di una tua misteriosa serie di allucinazioni. Pure, eccola davanti a lei, quella reggia sospesa nel cielo – e il suo amico Arnheim che le dava l'usuale benvenuto invisibile, una carezza sul volto mentre la faceva atterrare dolcemente sul balcone dell’ultimo piano.

In genere il comitato di accoglienza era già pronto. Sapevano sempre quando un ospite stava per arrivare e lo attendevano sul balcone, ignorando il gelo che forse nemmeno li toccava. Le piume, si era detta Cecilia la prima volta – devono essere le piume che li tengono al caldo. Nuda, dritta in piedi sul pavimento del balcone, fu salutata da una decina di struzzi, maschi e femmine, ciascuno con qualcosa per lei in bocca: scarpe, biancheria, un abito, addirittura la testa di una doccia.

- Nel caso volesse darsi una sciacquata, signorina Cecilia - disse lo struzzo.

Cecilia non riuscì a non sorridere.

- Ma come, qui fuori?

- O se preferisce, nel bagno del quinto piano. Il signor A. lo ha riservato per lei.

- Per lei - ripeterono in coro gli altri, frullando le corte ali.

- No, vi ringrazio, ho già fatto a casa. E il vestito?

- Scelto per lei dal signor A.

- Ma se non le piace, ce ne sono altri nel magazzino.

- Non ho mai avuto nulla da ridire sui gusti del signor A. - rispose Cecilia vestendosi, e poi ricordò il suo male, e la contentezza inaridì.

Gli struzzi la circondarono, fissandola con occhi freddi e preoccupatissimi.

- Signorina Cecilia, sta bene?

- Sono molto in ritardo?

- No, affatto. Sono arrivati solo tre ospiti, per ora.

- Li posso raggiungere?

- Senz’altro!

Era ormai vestita, e fu scortata dal balcone dentro il palazzo. Quante volte aveva percorso quel corridoio! Eppure ci trovava sempre qualcosa di nuovo. Per carità, piccoli dettagli, che però non sfuggivano al suo occhio pignolo. Per esempio, quella sera c’era un quadro nuovo appeso al muro. Il soffitto del quinto piano era largo dieci metri e si alzava per altrettanti sul pavimento, incastrato di quadri perché non stavano più alle pareti; ma Cecilia si accorse subito che Arnheim aveva spostato altrove il Degas per metterci un Manet da otto metri per sei, La rincorsa sul Pont de Bercy, una roba che Cecilia non ricordava in nessun catalogo delle sue opere e che avrebbe scommesso Manet avesse dipinto apposta per Arnheim. Anche le statue nel corridoio – c’era molto Rodin – erano state sostituite da abiti di un tessuto strano, una collezione dell’Asia Centrale che Cecilia non aveva mai visto prima. Cambiarono direzione a un incrocio – finirono in un altro corridoio con installazioni più moderne, tendaggi che calavano dall’alto in mille forme e riccioli, quadri a tinta unica e spatolate di colori, occhi che si aprivano sul soffitto. Meno male che Arnheim metteva sempre il cartellino accanto all’opera o Cecilia non avrebbe saputo cosa stava guardando.

- Vi piace questa sezione? - chiese. – La vedo per la prima volta.

- Personalmente preferisco il medioevo fiammingo - rispose uno struzzo alla sua destra.

- A me piace, invece - interloquì una struzza poco più indietro. – Il figurativo mi ha stancato almeno due secoli fa.

- Comunque, signorina Cecilia, per non farla stare in pena - disse un terzo struzzo - la festa stasera è proprio nelle vicinanze, reparto Ventesimo secolo, con buffet nella Foresta.

- Avevo letto sull’invito, grazie, Bernhard, ma in quest’ala del palazzo non ero mai stata.

- Davvero, signorina?

- Eh no. Prima, dall’Ottocento francese passavamo al geometrico dell’Egeo e poi alla Foresta. Si girava a sinistra all’ultimo incrocio.

- Vero. Abbiamo spostato quella sezione dall’altra parte del palazzo l’altroieri.

- Lei ha un’ottima memoria, signorina Cecilia.

- Ma no, è che mi piace sempre venire qui.

Fu accarezzata dalle teste di molti degli struzzi che la scortavano. Dopo qualche altro giro in altrettante sale ignote, ma fitte di materiali, giunsero finalmente nella sala coi muri rosso terra, decorata di porcellana d’Oriente, che Cecilia riconobbe subito come la sala della Foresta. Qui non era cambiato niente. Il lato da cui Cecilia entrava aveva la parete nuda. Quello alla sua sinistra, il grande tavolo con il buffet (c’erano già due o tre invitati a mangiare tartine e olive). Quello alla sua destra, una vasca di vetro piena di formaldeide con uno squalo tigre dentro, immobile (morto da un pezzo, così a occhio). Davanti a lei, la Foresta. Doveva essere notte anche lì, perché le luci della stanza si fermavano proprio prima della muraglia di alberi, che era invece immersa nell’oscurità. Se Cecilia provava a guardare gli spazi tra i tronchi vedeva solo buio, e sentiva odore di frutta e terra fresca – forse anche il rumore dei grilli. Ma fu distratta dagli altri ospiti, che le vennero incontro. Alcuni li conosceva già, e fu accolta con calore. Rispose come poteva, con imbarazzo, cercando di non far trapelare il macigno che aveva sul cuore. Damiano, un vecchio amico, era particolarmente contento di vederla. Si erano incontrati da Arnheim la prima volta ormai vent’anni prima.

- Cecilia mia, avevo paura che non venissi. Fatti abbracciare.

- Oddio Damiano, non mi sollevare che ho le vertigini.

- E va bene, che palle. Almeno assaggia questa tortina.

- Non mi resta spazio per la cena.

- Purché a cena poi mangi. Sei sciupata.

- Non fare la nonna, D. Non ti riesce bene.

Furono i dieci minuti di allegra chiacchierata più penosi della sua vita. Percepiva il brusio contento degli altri amici, il sorriso di Damiano, il rumore dei bicchieri levati e dei biscotti morsicati, e fissava di sottecchi lo sguardo vuoto e nero dello squalo nella vasca di formaldeide.

- Sono d’accordo con te - intervenne Damiano – fa schifo.

- Cosa?

- Quell’orrendo animale impagliato. È un’installazione di Damien Hirst.

- Un’opera d’arte? Io credevo fosse materiale per esperimenti scientifici. Tipo una necropsia.

- No no, proprio un’opera d’arte, e costa un’ira di dio. Arnheim ci teneva e ha chiesto una copia all’artista. Non ho mai capito cosa ci trovi.

- Be’, almeno non lo ha mai invitato qui di persona.

- Ci mancherebbe altro. Considerato dove lavoro adesso, sarebbe pure di cattivo gusto.

- Perché? Non lavori più all’Istituto a Città del Capo?

- Sì, ma fisicamente adesso sono in alto mare.

- Sul serio?

- Aha. Una missione di ricerca di sei mesi, in nave. Studiamo il linguaggio corporeo dei grandi squali bianchi. La lettera di Arnheim è comparsa sul cuscino della mia cuccetta quando ancora stavamo navigando a non so quanti nodi verso le Isole Farallon.

- Oddio, non se n’è accorto nessuno, immagino?

- No, è successo tutto di notte, per fortuna. Comunque ne ho approfittato per venire quissù un’ora prima e farmi una vera doccia.

- Ti hanno messo nel bagno liberty, quello con la vasca d’avorio?

- No, in uno stranissimo bagno dove non ero mai stato prima. Nell’ala ovest, dove a quanto pare è tutto formato gigante. La doccia era a venti metri d’altezza e non c’è stato verso di girare la manopola. Ho dovuto arrampicarmi sulla vasca da bagno con corda e piccone e fare il bagno lì. Era come nuotare in una piscina olimpionica. Ma che se ne fa Arnheim di un bagno per giganti?

- Arnheim ha un senso dell’umorismo un po’ strano, Dami. Forse ti ha rimpicciolito prima che entrassi nel bagno e tutto ti è sembrato enorme.

- Ah, può essere. E lo dirà oggi a cena e ci faremo due risate.

- Appunto.

- Ragazzi, non potete capire che spettacolo, venite subito qui.

Si voltarono. In mezzo a due tronchi di albero della gomma era sbucata Clarissa. Il suo volto venne illuminato dalle luci della sala; il resto era nelle tenebre della Foresta. Aveva un piede sul confine preciso dove il parquet della sala diventava terra umida e fresca, e si vedevano le radici degli alberi e il sottobosco. Arnheim aveva fatto mettere sul parquet un tappeto che si fermava giusto in tempo perché non ci cadessero sopra le foglie degli alberi.

- Ah, ciao, Clarissa.

- Cecilia, ma ciao.

- Pensavo che non fossi ancora arrivata.

- Macché, sono qui da prima di Damiano, ero andata a farmi un giro nella Foresta. Cecilia, ma che faccia, stai veramente a pezzi. Che succede?

Mai che Clarissa capisse quando era il caso di stare zitta e quando no. Alcuni ospiti appena arrivati non capirono, altri ridacchiarono.

- Il solito. Ne parliamo dopo?

- Ok - rispose Clarissa con una smorfia preoccupata – allora seguitemi.

- Chi, io e Dami?

- Ma no, chi vuole, insomma sbrigatevi.

In cinque o sei s’infilarono tra i tronchi, cadendo nella più fitta oscurità. Cecilia, a dire il vero, la campagna l’aveva vista solo in foto o in vacanza e non amava tantissimo la Foresta, come non amava in generale le grandi masse di vegetazioni con tutti gli eventuali insetti, mostri e scolopendre. Si teneva le mani nei capelli temendo che le saltassero in testa le cavallette o chissà cos’altro. Clarissa invece era entomologa, e il sospetto che volesse far vedere loro una meravigliosa larva cicciona di scarabeo rinoceronte era forte. Damiano avrebbe chiesto se si poteva fare allo spiedo e Clarissa avrebbe risposto che in futuro mangeremo solo insetti, perché sono proteici, pochi grassi, stiamo arrostendo il pianeta eccetera. Poteva fare questi discorsi con loro due perché, se capiva bene, erano grossomodo della sua stessa epoca storica; altri amici venivano da due o tre secoli prima o dopo di lei ed era difficile incontrarsi in un tema comune. Cecilia intanto andava per un sentiero di terra battuta, seguendo Clarissa insieme con gli altri ospiti – ci vedeva a malapena: Clarissa faceva loro luce con il cellulare. Si fermarono in una radura – le stelle improvvisamente sopra le loro teste.

- Dove sono le due lune?, chiese Cecilia. – Sono già tramontate?

- Brava, buona osservazione.

All’orizzonte si cominciava a vedere, attraverso le tenebre, il profilo di alcune montagne. Una fascia di cielo blu scuro faceva loro da sfondo. Poi, blu chiaro; poi azzurro; infime una linea incandescente parve accendersi come lo stoppino di una candela, e colorò il mondo.

- Non avevo mai visto l’alba nella Foresta - si lasciò scappare Cecilia, e in quell’istante si rese conto che Clarissa li aveva portati sul ciglio di un burrone, da cui si dominava un panorama sterminato.

- Lo so - rispose – e scommetto, nessun altro di voi.

Gli ospiti confermarono. Non ci fu altro da dire, se non passare mezz’ora in silenzio, o parlando piano, e ammirando le cime degli alberi, il fiume sul fondo del crepaccio, l’altro fiume più a valle, le cascate e il loro scroscio remoto. Cecilia, in piena anedonia da depressione, riuscì a godere del paesaggio per qualche secondo prima di tornare nel suo stato abituale di agonia. Nel ritornare verso il tavolo del buffet, camminando attraverso gli alberi, Clarissa la prese da parte.

- Allora, tesoro - disse – qual è il problema?

Cecilia si sentì un groppo in gola. Aveva resistito fino a quel momento, ma…

- Il solito - disse in breve, perché a parlar troppo temeva la voce rotta.

- Eh ma sono anni, Cecilia mia. Io qui mi comincio a preoccupare.

- Non è un fenomeno matematico. Non è prevedibile.

- Tu ti ci impegni?

Cecilia rispose di sì con convinzione, perché a conti fatti la cosa che avrebbe chiesto ad Arnheim di lì a poco era – nella sua testa – uno sforzo concreto per uscire dalla depressione che la torturava da anni. Clarissa le rispose con un sospiro. La luce della sala e il parquet col tappeto erano ormai in vista tra i tronchi.

- Ma sei ancora sotto farmaci?

- Certo.

- Ti riuscirai a divertire? O almeno a star bene? Dico stasera.

Una ragazza sveglissima, eh, ma il discorso della malattia mentale proprio non le entrava in testa, a Clarissa. Uscirono finalmente dalla Foresta. Damiano aveva sino ad allora avuto la delicatezza di lasciarle sole, ma da che furono tutti nella sala davanti al buffet la conversazione da privata finì per diventare pubblica. Non tutti gli amici sapevano del brutto male di Cecilia, né lei aveva voglia di parlarne; ma non aveva più energie per discutere o pensare ad altro, aveva esaurito la sua dotazione quotidiana. E il tempo stringeva. Entro una mezz’ora ci sarebbe stata la cena con Arnheim, e lì non ci sarebbe stato verso di avere cinque minuti da sola con lui. Dopo cena, si sarebbero ritirati per sentire musica, e poi Arnheim, al solito, sarebbe andato a letto – impossibile disturbarlo in quel momento. No, doveva beccarlo adesso. Approfittò di un attimo in cui Eucherio monopolizzava l’attenzione degli amici con il suo braccio ricresciuto, e si allontanò rapidamente dalla sala del buffet, attraverso la stessa porta da cui era entrata.

Ma uscì in un corridoio buio nel quale non ricordava di essere mai stata. Una lucina si apriva su una stanza a meno di un chilometro. Percorse quella distanza a gran passi. Bastava trovare uno dei domestici, lui le avrebbe detto dove trovare Arnheim, o l’avrebbe portata da lui. Ma il palazzo era talmente grande! Nel buio, non si accorgeva che appesi alle pareti non c’erano più quadri o arazzi, ma pergamene e fascicoli di carta. Arrivò alla stanza e si piazzò sull’apertura.

- Oh, scusa, Wolfgang.

- Prego, Cecilia. Ero già un po’ distratto di mio.

Ma tu guarda se dovevo capitare proprio nella biblioteca musicale, pensò Cecilia inoltrandosi – senza sapere perché – nell’immenso archivio delle partiture regalate ad Arnheim, o da lui comprate, o composte apposta per lui. Wolfgang adorava stare lì quando voleva scrivere; si era fatto mettere una scrivania con carta pentagrammata e penna, e accanto una spinetta per strimpellare se ne aveva bisogno. Si portava spesso dietro un fiasco di vino ed un bicchiere, o pane e formaggio. Ogni tanto passava tra gli scaffali a consultare qualche manoscritto. E stava seduto a comporre per ore.

- Vuoi un po’ di provola? Io non ho più fame.

- No, grazie, Wolfgang. Se vuoi me ne vado.

- No, no, resta pure. Come stai? Spero un po’ meglio.

- Sono depressa.

- Anche io.

- Veramente?

- Me lo ha detto Arnheim. Da solo probabilmente non ci sarei arrivato.

- Wolfgang, ma da quando credi nella psicologia?

- All’inizio pensavo fossero scemenze. Poi, sai, a venir qui spesso, ti –

Fece il gesto, estendendo le braccia come un bimbo che abbraccia il mondo.

- ti si allarga la testa, concluse.

- Mi dispiace, disse Cecilia.

- Anche a me, ma non so che farci, rispose lui. – Tu invece potresti cavartela, no? Avete quelle medicine meravigliose, nella tua epoca.

- Ci sono cose che, cominciò a dire Cecilia – e poi si interruppe.

Aveva poggiato gli occhi sulla partitura.

- Il tuo Requiem?

- Aha.

- Lo stai – posso toccarlo?

- Ma certo.

- Lo stai finendo?

Passò le mani tra i fogli di carta. Wolfgang era impegnato ad orchestrare un passaggio dove c’erano solo voci e basso continuo. Le righe erano piene di piccole cancellature e ripensamenti.

- Sì. Ho tutto il tempo, direi. Arnheim me lo ha chiesto come un favore personale. Vuole farlo suonare nel palazzo.

Cecilia era imbarazzatissima.

- Sì, lo so che sono morto prima di finirlo, riprese Wolfgang con un mezzo sorriso. – Non farti venire l’ansia. Sono effettivamente morto non so quanti giorni fa, almeno dal mio punto di vista – un cadavere grassottello nel cimitero di Vienna. Arnheim mi ha chiesto se prima di… bè, di passare oltre, mi trattenevo qui a finire la partitura. Capisci, ci teneva.

- Ma è meraviglioso, balbettò Cecilia.

- Sì, sì. Meraviglioso.

- Non ti sento convinto.

- Sta venendo molto bene, capisci? Mi secca che giù nel mondo nessuno lo abbia potuto sentire se non in quella versione a metà.

- Ma già quella è pazzesca.

- Grazie. Se ti piace così, figurati quanto ti piacerà la versione completa.

Cecilia cominciò a piangere.

- Avrei tanto voluto sentirla.

Wolfgang la guardò con tanto d’occhi sul nasone austriaco.

- Cosa intendi dire…?

- Wolfgang, sai dov’è Arnheim?

Le indicò la porta da dov’era entrata.

- Arriva alla fine del corridoio. C’è un balcone. Dà direttamente su Arnheim. È là fuori.

- In che forma?

- Aquila, credo. Cecilia, che hai?

- Grazie, Wolfgang. Grazie, e gli diede un bacio sulla guancia. Poi si dileguò nella tenebra del corridoio.

Era come aveva detto lui. Cominciò a vedere davanti a sé una macchia di azzurro scuro. La macchia si allargò, si fece rettangolare, il colore passò a blu in basso, e rosa in alto. Uscì finalmente sul balcone, al freddo dell’inverno celeste. Si attaccò al parapetto di pietra, il vento che le scompigliava i capelli. La luce poco invadente del perenne mattino galleggiava nel cielo. Davanti a lei, la montagna infinita, che nasceva chilometri e chilometri sotto di lei, e le cui cime più alte decoravano all’orizzonte il belvedere del Palazzo. Lì per lì cercò un’aquila che volteggiasse nel cielo. Poi, guardando le cime dei monti, realizzò. Un’aquila, sì, ma fino a poco prima, quando aveva salutato Wolfgang. Adesso era la montagna, nella sua interezza – la cima ancora ricordava il viso di un’aquila reale, le ali fatte di pietra ancora si vedevano imitare il profilo delle montagne intorno. Era davanti a lei. La vedeva e l’ascoltava.

- Arnheim, sei lì?

- Cecilia, mia cara. Buonasera.

Oh, quella voce profonda che veniva dal nulla, dalle tue stesse viscere calde, dalla parte più intima e sicura di te stessa, e pareva che ti desse sostegno nella sua corporeità, come fosse il tuo scheletro, l’attacco dei tuoi muscoli.

- Arnheim, perdonami se ti disturbo prima della cena. Ho bisogno di chiederti una cosa. Un favore molto importante.

  • - Ti ascolto.

Cecilia inghiottì. Lasciò che il dolore tornasse ad accumularsi nei suoi occhi, lo fece scoppiare in lacrime, liberò due singhiozzi che tratteneva da ore, e:

- Io sono contentissima di venire qui. (Non disse ‘felice’, perché non le sembrava che la parola fosse reale.) Davvero, contentissima. Amo questo luogo. Le persone che incontro qui mi hanno dato tantissimo. Ne riparto ogni volta a malincuore.

- Ti ringrazio, ma è normale. Passata la serata, torni – come tutti – alla tua vita di sempre, come è giusto che sia.

- Io non so davvero perché tu mi abbia scelta per questo onore.

E di nuovo, singhiozzi.

- Non scegliamo chi amare, Cecilia, o a chi voler bene. Sono cose che capitano. E così è capitato che io ti volessi bene. Apri il tuo cuore all’amico. Tu soffri da molto tempo.

- Sì. Io voglio appunto chiederti se stasera, tu – se mi fai questo favore, se posso – se posso restare qui nel tuo palazzo per sempre.

Arnheim non rispose. L’aquila fatta montagna davanti a lei rimase immobile. Il vento continuò a correrle per le orecchie, i capelli, il viso. Cecilia non badava più nemmeno al freddo.

- Cecilia, non sono sicuro che sia la soluzione giusta per te, disse infine.

Cecilia si sentì mancare le gambe.

- Tu mi disprezzi.

La roccia a forma di aquila parve diventare più rossa, e gonfiarsi come per un respiro.

- Non ti ho mai disprezzato, né mai lo farò. Cerco solo di parlare per il tuo bene.

- Allora non farmi tornare a casa mia, Arnheim. Non farmi tornare alla mia vita, per carità. Se mi fai tornare laggiù, io morirò. Guarda nella mia testa, tu sei bravo in queste cose. Dimmi se mento.

Arnheim attese un po’, poi:

- Nella tua testa ci guardo da tanto tempo. Non ho bisogno di guardarci adesso. So benissimo come stai. So che il male di cui soffri è feroce, che ormai non è più in tuo potere, e che nemmeno la tua medicina e la tua psicologia sono riuscite ad averne ragione. Non c’è un secondo del tuo tormento che io non senta sulla mia pelle.

- Ma allora!

- Non hai ancora trentacinque anni.

- E da venti ho questo mostro nella testa. Venti anni sprecati.

- Hai ancora buona parte della vita davanti a te. Tu credi che sinora la tua lotta sia stata vana. Ma la tua vita non è finita e la tua guerra non è perduta. Cecilia mia, tu sei forte, più di quanto pensi. Chi ti dice che in futuro tu non riesca a vincerla?

Cecilia tacque. Non aveva previsto questa obiezione. Come molti depressi, da tempo non riusciva a visualizzare più un futuro, se non in termini estremamente astratti. Cosa doveva esserci domani, se non la stessa cosa che c’è oggi? E così via, finché non si sarebbe buttata dalla finestra per finire tutto.

- Posso vincere, come perdere malamente, Arnheim.

- Non lo sai ancora.

- No. E in astratto tu hai ragione. Ma se io fossi stanca?

Uno a uno, palla al centro, pensò improvvisamente Cecilia. Perché per un minuto buono non ci fu risposta dalla montagna che aveva davanti a sé. Continuò a fissare la testa di pietra dell’aquila, stringendo il parapetto del balcone.

- Tu sei esausta - rispose infine. – Questo lo vedo bene.

- Sì. Esausta, sfinita, trova l’aggettivo che vuoi. Soprattutto annichilita dallo spreco. Stare male perché nel tuo cervello c’è un circuito sballato. Perché i neurotrasmettitori vanno come pecore, a mantenere il loro cristo di livello di non so cosa. E intanto fuori c’è la vita e la gioia e io non le riesco a prendere neanche di striscio. Perché ho il nemico in testa. Ti rendi conto?

- Lo capisco.

- E allora fammi questo favore. La mia felicità, nella vita – per come la posso godere io, sempre un po’ da schifo, ma tant’è – l’ho conosciuta qui, grazie a te. Se resto qui, sento di poter veramente lottare ancora. Qui, tutto è possibile. Non mandarmi via, farò tutto quello che vuoi. Ma non mi cacciare. Perché non so se sarò viva la prossima volta che m’inviterai.

Ancora silenzio.

- Non è in questione unicamente la mia volontà. Il problema è che questo luogo non è fatto perché voi ci viviate per un tempo prolungato. Io vi rimando a casa non perché voglia disfarmi di voi, ma perché se rimaneste più a lungo, intendo dire da vivi, comincerebbero a vedersi sui vostri corpi e sulle vostre menti degli effetti che preferisco non descriverti.

Cecilia restò a bocca aperta.

- Non lo sapevo.

- Ora lo sai. Per me, sarei ben contento di averti sempre intorno qui a casa mia, perché ti voglio bene. Ma perché tu viva in un luogo come questo, dovrai lasciare qualcosa in cambio.

- Eccomi. Cosa?

- Non potrai tornare mai più a casa tua.

- Al diavolo casa mia.

- E accadrà qualcosa al tuo corpo fisico. Forse anche alla tua mente. Sarai sempre tu, ma diversa.

- Sai già cosa diventerò?

- No. Sarà una novità anche per me.

- Stai a vedere che per una volta sono io a stupirti.

- Cecilia, sei sicura?

- Guardami dentro e lo saprai.

Arnheim non rispose.

Prima che tutto cambiasse, Cecilia fece in tempo a sospettare che in realtà, per quanto non l’avesse ammesso, il suo amico si aspettasse una richiesta del genere.

Poi cominciò ad illuminarsi il cielo, prima dagli angoli, e via via verso il centro. Il mondo – quella versione stramba di mondo in cui erano, fatta di cielo, nuvole e montagne e un palazzo sospeso in aria – parve sfrigolare e brillare come il nocciolo di un reattore nucleare immerso in acqua. Sentiva la presenza di Cecilia e si preparava ad assorbirla.

Cecilia fu sollevata in alto, a mezz’aria, e poi portata verso il cielo, lontano dal balcone. La montagna a forma di aquila le stava sempre davanti. Poi non vide più niente, circondata com’era da un alone sempre più solido di luce bianca. Come chiusa in un bozzolo, vide le pareti avvicinarsi sempre di più, fino a toccarla e chiuderla in un uovo caldo e silenzioso, dove si sentiva un brontolio sommesso in sottofondo. Cecilia chiuse gli occhi e cominciò a non sentirsi più i piedi, le gambe, le braccia, il ventre, la testa. Rimase una Cecilia tutta mentale, un cervello di Cecilia che galleggiava nel brodo di energia e vibrazione dove il suo corpo, reso atomi e liquidi, roteava e si spalmava. Ma tutto questo non era nulla in confronto al miracolo. Perché quando quella luce attaccò il suo cervello, e ne riorganizzò le molecole, qualcosa si staccò da Cecilia come la sporcizia quando passi lo sgrassatore sul tavolo, e fu lavato via, scomparendo per sempre. Era il suo male. Il male veniva sgrassato via dalla sua testa, sciolto, il suo peso andava in nulla, ed ecco Cecilia improvvisamente leggera, improvvisamente – in pace.

Poi si sentì corpo di nuovo, concreta ma morbida, accovacciata in una strana posizione, chiusa nel buio dentro pareti sferiche. Era appoggiata su qualcosa di duro. Volle uscire. Non aveva mani, ma picchiettò la parete con qualcosa di appuntito che aveva davanti al muso. Pic, pic, pic, ecco la luce farsi largo attraverso la spaccatura. Ci volle a Cecilia quel poco di luce celeste, per riconoscere il cielo del palazzo di Arnheim, e capire che era dentro ad un uovo.

Sempre picchiettando sul guscio, sbucò fuori con la testa. Mettendo a fuoco la vista, si rese conto di avere un becco. Agitò le braccia. Erano due alucce. Tutto intorno al suo corpo umido c’era uno strato di penne soffici e neonate. Insistette. Capitombolò fuori dal guscio, sul balcone del palazzo, dov’era fino a pochi minuti prima. Voltò a destra e sinistra la testolina, e solo allora vide, enormi davanti a lei, Damiano e Clarissa che la guardavano.

Fu Damiano il primo che la prese in mano, portandosela vicino al petto, e accarezzandole il dorso. Cecilia ne fu contenta, e volle dirgli grazie: le uscì fuori un cinguettio compitissimo.

- Un pulcino - commentò Clarissa.

- Già. Credo di aquila.

- Sembrano tutti uguali, senza piume?

- Se non ci fai l’occhio sì. Io poi studio i pesci, figurati.

Cecilia cinguettò nuovamente, strofinando la testolina contro la mano di Damiano. Era molto contenta di essere coccolata.

- Ma è Cecilia?

- Certo che è lei - rispose Damiano. – Ricorda cosa ci ha detto Arnheim. È lei. Solo, diversa.

Cecilia, che li sentiva e li capiva benissimo, rispose beccando gentilmente un dito di Damiano, e agitando le alucce. La situazione era molto divertente.

- Non so davvero capire perché sia arrivata a un passo del genere, disse ad un certo punto Clarissa, e forse voleva cominciare a fare un lungo discorso. Ma poi prese Cecilia in mano, se la portò vicino alla guancia, e la accarezzò col viso. Cecilia cinguettò e trillò.

- Come faremo a comunicare, in futuro? - chiese allora.

- Io direi che aspettiamo che cresca un po’, rispose Damiano – e poi si chiede ad Arnheim come fare. O forse s’inventa qualcosa lei. Ricorda, Arnheim ha detto che non l’abbiamo persa. È solo cambiata.

- Come tutti noi, commentò Clarissa. – Pensa che buffo. I domestici del palazzo sono tutti uccelli. Cecilia diventerà un domestico anche lei?

- Non credo. Ma se volesse, che problema ci sarebbe?

Clarissa rise.

- Va bene. Andiamo, ché è pronta la cena. Voglio vedere se mangia qualcosa, questo pulcino Cecilia.

- Ricorda che le dovrai masticare prima il boccone, le disse Damiano, e cominciarono a battibeccare per scherzo mentre tornavano dentro il palazzo; Cecilia intanto, comodamente sistemata nel palmo di mano di Clarissa, appoggiò la testolina sui polpastrelli e cominciò a dormicchiare beatamente.