Il guscio
Ho conosciuto Adele a una lezione sui codici miniati nella Bologna medievale. L’ho conosciuta nel senso che la guardavo, ma lei non si è mai girata. Quando siamo usciti dall’aula ho provato a seguirla, ma lei ha preso la bicicletta e ha iniziato ad allontanarsi, senza salutare nessuno. La portava a mano, la bicicletta, ma aveva il passo molto veloce e, girato l’angolo, non l’ho più vista.
Nei giorni successivi, a quel corso non è più venuta, né ho potuto vederla mai nello spiazzo davanti alla facoltà di lettere. L’ho ritrovata un pomeriggio, che usciva da una lezione di meccanica analitica, e si guardava attorno senza espressione, in mezzo agli studenti di fisica.
Poi la settimana dopo, la vedo uscire dall’istituto di biologia. Chiedo a un ragazzo che si sta accendendo una sigaretta tenendola con il labbro storto da una parte. Lui scherma il vento con la mano, accende, dà il primo tiro, dice Ecologia marina. Piega una gamba all’indietro, poggia il piede al muro, butta fuori il fumo verso l’alto, dice Usciamo da una lezione di ecologia marina. La ragazza magra? Dice No, non la conosco. Non è del corso. È venuta oggi per la prima volta. Guarda che, se ti interessa, sta andando via.
La vedo allontanarsi ma stavolta la seguo, dico Gran bella bici quella, non se ne vedono tante. Una Bianchi, azzurra poi. Dev’essere degli anni ’70. Lei si gira, non dice niente. Cammina ancora cento metri almeno, di buon passo. Poi si gira di nuovo, dice Non è mia. Però è vero, è bellissima. L’ho trovata per strada, e l’ho presa. Si raccoglie i capelli sulla nuca, li ferma con una specie di spillone africano di legno, mi guarda distratta. Dico Insomma l’hai rubata? Sorride, alza le spalle, dice Non c’è niente di male sai, era tutta sporca, sgonfia, mica la usava qualcuno.
Camminiamo ancora, neanche penso a dove ho appoggiato lo zaino, o a dove stiamo andando. Dico Ma perché la porti a mano? Lei guarda in basso, verso la ruota, dice non vedi che non funziona bene? Senti come cigola.
Raccolgo lo spillone che le cade mentre le si sciolgono i capelli, allungo il passo per riuscire a starle dietro. Se vuoi posso darle un’occhiata io, dico, se hai un cortile. La mettiamo sottosopra, poggiata sul manubrio, facciamo girare il pedale. Vediamo, magari con un po’ di olio si sistema.
Adele non ha un cortile, ma dice che possiamo fare tutto dentro casa. Che la sua casa è luminosa, grande, e ci si può fare anche quello che di solito si fa in un cortile, anche quello che di solito si fa all’aperto. Io non capisco, ma la seguo, lei e la sua bici rubata e portata a mano. La vedo infilare la chiave nella toppa di un portone tutto tarlato, vecchio come il Pentateuco, tutto punte di ferro, chiavistelli, verde di muffa. I due battenti sono a testa di pesce, di leone cinese, di mostro marino, non so. L’androne è fresco, ombra e pietra, rimbomba, odora di casa antica. Adele poggia la bicicletta sul muro, la lascia lì. Poi si avvia su per le scale, dico Ma non dovevamo guardare la bicicletta? Aggiustarla? La mia voce mi arriva potente, vibra tra le colonne di marmo, su per la gradinata, ma lei neanche risponde, sale le scale. Sale ancora e ancora, senza voltarsi, canticchiando, e io la seguo. Al secondo piano si toglie le scarpe. Sul pianerottolo c’è una panca dipinta, settecento veneziano direi, con lo schienale martoriato dai morsi di topo, tutta inclinata da una parte; sopra c’è un gatto nero, senza un occhio, che soffia come un cobra. Saliamo almeno altri tre piani, la scalinata ha dei gradini altissimi, di pietra consunta, bionda come miele colato. Dalle grandi vetrate infrante appaiono torri sbiadite, entrano folate di sole che fanno ondeggiare cattedrali di ragnatele e polvere. Lucertole grandi, molto grandi, escono dalle crepe, come macchie d’ombra si muovono sul muro. Poi si fermano a guardarmi fisse, coi loro occhi verdi e verticali.
Adele si sfila la felpa, continua a salire. Da qualche parte sopra le nostre teste c’è uno svolazzare, un tubare, un fremere d’ali. Saliamo ancora, io sento il fiato grosso, Adele è scalza e veloce, si toglie anche la maglietta. Continuo a salire guardandole la schiena, sembra un congegno preindustriale, meccanico, un orologio con le sue ruote dentate: le vertebre sporgenti, la pelle bianchissima, una magrezza aggraziata, a cremagliera. Subito fuori da una vetrata un nugolo di vespe ronza intorno al suo nido. Adele infila la chiave nella toppa di una porticina bassa, col sopra porta fatto da una grata in ferro battuto a volute larghe, rese più fitte da una ragnatela che sembra un mandala, con al centro un ragno che mi guarda. Un pulcino di civetta esce dal buco del campanello, che dondola a penzoloni fin quasi a toccare terra.
La casa di Adele è la cima di una torre disabitata, un faraglione in mezzo al mare. Dai vetri rotti entrano ed escono i gabbiani, scrollano le piume umide, si posano sullo schienale dell’unica sedia intagliata, regale, sembra un seggio burgundo. Sulle travi del soffitto ci sono alcuni scoiattoli che corrono, tra le loro tane, gli affreschi e i nidi di rondine. In un angolo pendono delle anelle da ginnastica attrezzistica, e, puntato su un lucernaio rotto, c’è un telescopio arcaico, pieno di lenti, snodi e impugnature, sembra quello di Galileo.
Strani rumori arrivano dalle stanze enormi, che si susseguono tutte una dentro l’altra, avvolte in un albore preistorico, assolato e polveroso. C’è una stanza centrale con il soffitto altissimo, le volte a padiglione piene di affreschi sbiaditi, e arazzi alle pareti come bestiari medievali. Versi simili a un miagolare, o al guaire di misteriose nidiate mi raggiungono da vecchie cassapanche spalancate; roditori simili a castori rigati mi guardano da una poltrona di velluto rosso, mentre altri piccoli mammiferi maculati come leopardi dormono aggrovigliati su tappeti persiani, facendo strane fusa.
Adele butta scarpe e maglietta in un angolo, si spoglia completamente nuda, dice Fai come fossi a casa tua. Poi si avvicina al cavalletto, posiziona meglio il suo quadro alla luce, inizia a dipingere. Dice Serviti pure, accomodati. La cucina è di là.
La stanza che mi indica è uguale alle altre, solo c’è un frigorifero vuoto, con al centro dello scaffale un uovo sodo. Dice Prendi quello che vuoi, ma non mangiare l’uovo, quello mi serve per dipingere.
Da almeno tre settimane, che potrebbero essere sei, o forse anche otto, non vado più a lezione. Non mi interesso degli esami, degli appunti e di tutto il resto. Tutti i pomeriggi li passo a casa di Adele, a raccogliere i frutti dall’albicocco che sbuca con le sue fronde dal pavimento del salone, o ad arrostire i pesci che catturo sott’acqua, nella grotta che sta sotto il pavimento della sala azzurra, dove vado anche a rinfrescarmi quando il sole nella stanza gialla – dove manca parte del tetto, proprio vicino al piede di un arcangelo – si fa troppo potente. Adele dipinge, nuda, davanti alla finestra. Canticchia una canzone, sempre la stessa, e non parla quasi mai. Le uniche cose che dice, sottovoce, in una lingua che non ho mai sentito, sono al pulcino di civetta che si ferma sul davanzale, o al vecchio procione fulvo che le si accoccola sui piedi. Ci sono dentro parole morbide, gutturali, e sonorità barbariche, forse slave, o mesopotamiche; e piccoli suoni ritmici, rauchi, neri come la gola della giungla.
In realtà, dai suoi gesti, so che sta parlando dell’uovo che tiene davanti, penso stia spiegando loro – al pulcino e al procione – qualcosa che lo riguarda. Allora sono geloso, perché a me non spiega mai niente. Ma poi sento che la gelosia si sbriciola, si frantuma, diviene come farina di farfalle, e vola via.
I primi giorni stavo tutto il tempo a guardarla, e avrei voluto toccarla, fare l’amore con lei. Volevo tanto che fosse mia, solo mia, dicevo Ma se qualcuno ti vede, così nuda, davanti la finestra?
Lei non mi rispondeva, continuava a cantare, oppure diceva Non c’è niente di male a essere nudi.
E io non sapevo dire niente.
Col passare dei giorni Adele è diventata sempre più bella, e i capelli le sono cresciuti lungo la schiena, in boccoli morbidi, color caramello. Io non sono più tornato a casa, perché voglio prendermi cura di lei, guardare le costellazioni di nei sulla sua pelle, trascrivere i suoni degli uccelli sul rigo musicale; qualche volta andiamo insieme all’università, a piedi, con la bici che cigola portata a mano, a sentire una lezione di biostatistica, o fisiologia vegetale, o di etruscologia. I pesci non li mangia e le albicocche le assaggia appena, per il resto non l’ho mai vista mangiare. L’uovo è ancora nel frigorifero, e sono nati dei cuccioli di rondine nella stanza della musica. Mamma rondine porta loro dei vermicelli bianchi che trova nel prato all’ingresso, cresciuto di recente nelle crepe della veneziana, e glieli fa cadere nelle piccole bocche spalancate. Vicino a queste isole di prato, con la pioggia si è formato un laghetto verde dove spesso va a rinfrescarsi l’anatra che vive nella coda del pianoforte.
A volte guardo Adele per ore mentre dipinge, con il suo uovo poggiato davanti, che non ho capito a che cosa le serve, ma comunque io sto lì, e conto tutti i numeri pari fino a cento, poi ricomincio con quelli dispari fino a duecento. Poi conto le lettere alle parole che mi vengono in mente, pun-zec-chia-re 12, spe-re-qua-zio-ne 13, ca-ta-rin-fran-gen-te 16, e così via. Lei mi dice Mettiti comodo, dice, perché tieni tutta quella roba addosso? Io mi spoglio, dico, non è che ti dispiace? Lei, accaldata, si toglie una ciocca di capelli dalla fronte, lo fa con il polso, perché ha in mano il pennello e le dita sono sporche di colore. Sembra stanca, dice Non c’è niente di male a essere nudi.
La prima volta che abbiamo fatto l’amore non riesco a ricordare se ha iniziato lei o io, né capivo più bene qual era il suo corpo e quale il mio, e chi volesse cosa, ed è stato bellissimo. Da allora, o forse da prima, non mi sembra più di volere niente, se non quello che succede. E in questo mi sembra di somigliare sempre più a Adele, e agli animali che vivono con noi.
A volte suono il piano, o una delle viole, quando i cuccioli di rondine non stanno dormendo, e quando l’anatra è uscita dalla coda del vecchio Steinway per andare al lago verde dell’ingresso, o al davanzale. Non ho mai saputo suonare niente, ma qui mi riesce, e non temo di dare fastidio perché sembra non esserci nessuno, nella torre, a parte noi. Nelle ultime settimane è piovuto molto, e la casa di Adele ora assomiglia a un’isola, ricca di morbida flora, di canneti, di stagni, sono arrivate anche le rane, anche alcune raganelle azzurre, fenomeno raro, dice lei, dovuto al malfunzionamento degli xantofori e alla prevalenza degli iridofori. Lo sapevi? dice Per questo sono azzurre. Lo hanno detto a zoologia dei vertebrati, ma tu, che peccato, non c’eri.
Adele ha la raganella sulla mano aperta, guarda le sue piccole dita divaricate, terminano con una specie di bottoncino, dice Guarda che bella. Poi si guarda le mani, dice È con le dita sai, che vediamo il mondo. Il resto è solo un sogno. Quando tu suoni, per esempio, cerchi di toccare il mondo, di trovare le tue pareti nell’aria. Ma siamo tutti così perduti. È tutto molto grande, troppo grande. Poi guarda il suo quadro come se non lo vedesse, come se ascoltasse un suono molto lontano nel tempo, o che viene da dentro di lei. Quando accarezzi qualcosa, dice, solo allora lo provi a conoscere davvero. Io con le dita e i pennelli accarezzo il mondo, lo cerco. Ma è comunque tutto troppo molle, lontano, muto. Tutto troppo grande per me. Quando non sento i limiti mi capita, a volte, di avere paura.
Il silenzio ha il ritmo delle gocce di pioggia che iniziano a cadere sul tetto, sempre più sonore, e dal soffitto gocciolano sui rosoni di marmo, sul tappeto di seta blu, sui cieli iranici, i demoni e i Simurgh.
Prendo coraggio, dico Ma il tuo quadro, che cosa rappresenta? Lei posa la rana piano, poi fa un gesto delicato con la mano, come a cercare la risposta nell’aria. Prova a dire qualcosa, poi richiude la bocca. Non mi risponde nulla, e si rimette a dipingere. Il temporale colora tutto di grigio e d’argento, siamo in un vecchio dagherrotipo, in una litografia; io suono al ritmo della pioggia, e mi sembra di far piovere dal cielo le note di Satie.
Solo quando è scesa la sera, nella grande torre nera sul mare, e gli uccelli hanno smesso di pigolare, e i piccoli mammiferi maculati si aggirano con gli occhi tondi nel canneto, solo allora mi dice Rappresenta la vita, il quadro intendo, tutti i miei quadri rappresentano la vita, come si fa sentire in quel momento. È per questo, dice, indicandomene una pila accatastati sul pavimento, che non li capiamo. Dice proprio così, non li capiamo. Ma neppure tu li capisci? No, dice, io per prima. Quando li finisco io non sono più come quando li ho iniziati, e la vita si è spostata, mi attraversa in un altro modo, e devo ricominciare. Sarebbe orribile il contrario. Se li capissi da subito parlerei solo di me stessa, sarebbe solo un autoritratto. Sarebbe un grido, un’imposizione. Sarebbe un possesso.
Quando guardo il mucchio di dipinti, i pennelli logori, il cavalletto zoppo, a volte dico Ma non ti converrebbe venderli? Mangi così poco e…
Le sale al viso una rabbia grigia, come un vapore che viene dal petto, dice La fame, la sete, i soldi, le gabbie. L’olocausto delle creature. La compravendita. Le lacrime le cadono dagli occhi come pioggia verde, dice Siamo uova nel frigo. L’unica cosa che ci preme è conservarci, nel nostro guscio, comodi, pieni, ma siamo già morti. Alcuni pensano di trovare pareti rinforzando il guscio, accumulando oggetti, ingurgitando. Ma la stanza della vita diventa sempre più grande, il vuoto più sordo. Ogni parola porta con sé il rimbombo della mancanza da cui proviene.
Leva i capelli dal viso con quel gesto che conosco così bene, sfuoca lo sguardo, dice Qualcosa ha rotto il mio guscio. Non riesco a essere come gli altri. Ma penso che solo schiudendosi si possa dar vita alla vita, lasciarsene attraversare.
Poi respira piano, il suo sgomento è una nube che si posa. Sciacqua un pennello con calma, ha la fronte quasi trasparente, le dita come fili d’erba, dice Scusami, è che penso questo quadro sia l’ultimo. Sorride appena, dice Inizio a sentire i limiti, le pareti, le tocco capisci? Penso di averle trovate. Dunque sono arrivata. Non ho più bisogno di nulla.
Sento le perle di sudore pungermi la fronte, colare alla tempia, dico Finito cosa? Arrivata dove?
Lei asciuga il pennello, dice Tutti gridano. Ma finché sei qui, devi solo capire se vuoi dare o avere. E quando hai deciso, vedi che sei allo specchio. Ed è allora che la strada accelera.
Io non capisco. Non del tutto. Ma penso che anch’io non sono più il genere di persona che ricordo. Guardo il suo corpo bianco di latte, la quiete boreale nelle iridi verdi, il collo come un petalo. Una piccola creatura di cristallo, tenuta sulla mia mano aperta. Ho smesso di desiderare nel modo che conoscevo. Ho smesso di trattenere, di stringere nel pugno le cose, le persone. Respiro come non ho mai fatto, i miei polmoni fluttuano liberi nel mio corpo nudo. Guardo le mie mani che ora sanno suonare, non ricordo né il dolore rosso, né la rabbia. Penso che non c’è davvero nulla di male a essere nudi. O poveri. Ad avere il guscio infranto. Respiro e ascolto il silenzio, desidero solo quello che accadrà. Sento l’aria che mi avvolge attorno diventare sempre più limpida, e leggera.