La spigola
Era un novembre insolitamente caldo. Mimì, come suo solito, aveva raggiunto il mare aperto già da qualche ora. Guardò l’orizzonte, poi l’orologio. Tra poco avrebbe albeggiato. Tutto il materiale, poggiato secondo il consueto ordine, giaceva immobile sulla piccola barchetta, pronto a scattare al primo ordine del capitano, mozzo, pescatore e proprietario, Mimì. C’era ancora un po’ di tempo prima di cominciare, pensò, il mare era una piana invitante e distesa, ancora buia e silenziosa, tiepida. Nulla avrebbe potuto fare Mimì se non tuffarsi, e così si tuffò. La snella imbarcazione reagì con un piccolo sussulto, ondeggiando. Lo stesso fece il mare. Poi subito tornarono a calmarsi, in una nebula e quieta pace. Gli occhi abituati di Mimì non faticarono ad aprirsi nell’acqua salmastra e la luce del crepuscolo iniziò ad illuminare di riflessi dorati e verdastri i fianchi argentei delle spigole. In apnea circumnavigò la barca, tutto intorno centinaia di grossi esemplari basculavano eleganti. Mimì gioì interiormente, non solo per la fortunata pesca che lo attendeva, ma piuttosto per quella solitudine assoluta, lontana dalle reti onnivore vicine alla riva, che tutto fagocitavano, lontana dagli uomini, vicina alle spigole. Risalì agilmente sulla barca, si asciugò il capo ipotricotico e si infilò la solita, consunta canotta marrone. In pochi attimi, ogni singolo oggetto adempieva alla sua funzione, chi come individuo e chi inserito in un intricato meccanismo composito. Un piccolo vermetto, selezionato dall’occhio attento di Mimì il giorno prima, tra i barattoli dell’emporio Pesca e dintorni di Angela e Lino, sprofondò docilmente nell’acqua. Ora, non restava che attendere. In sole due ore la piccola barchetta era sommersa di spigole. A Mimì non restò altro da fare che prendere i remi tra la pelle dura delle mani, coperte di salsedine, asciugate dal sole, e fare ritorno a terra.
– Non capirò mai come fai, Mimì… – riuscì a farfugliare Carlo, grattandosi il capo, mentre finiva di contare a fatica le monete tra le dita tozze
– Eh, caro mio… – sorrise in risposta il pescatore, con un gesto sicuro di soddisfazione
Per il secondo la giornata era finita, per l’altro appena cominciata. I due si salutarono con affetto, ovverossia, nel loro linguaggio, senza parole e con un breve ed esatto cenno del capo. Carlo finì di sistemare i luccicanti chili di spigole nel cesto più visibile della sua pescheria e si accese una sigaretta, in attesa dei primi clienti. Il primo, come al solito, fu il dottor Brissoni, Armando per gli amici, in pensione da dieci anni, vedovo, che acquistò, come ogni venerdì, alici etti due – per una fritturina veloce, che fa bene al corpo e allo spirito – e un bel pescato fresco su consiglio del buon Carlo – trattami bene, mi raccomando, che la settimana scorsa quell’orata non era un granché.
Dopodiché, in ordine, fu la volta della signora Albertazzi, di Pasqualino il figlio del notaio Dottorini, di Francesco il pizzaiolo, del trittico di casalinghe Casale, Di Muro e Parini, del notaio Dottorini, venuto a saldare il conto del figlio, disoccupato. Poi, ancora, vennero turisti e passanti privi di un cognome e una storia precisa, venne Rocco il pazzo, che blaterò qualcosa sugli allevamenti intensivi di sogliole, finché Carlo non riuscì ad allontanarlo corrompendolo con una Lucky Strike. Venne persino Assunta, la nipote del sindaco, tentazione diabolica e impossibile del povero pescivendolo, che fu ringraziato con un sorriso spietato al solito omaggio e promessa d’amore di numero cinque Aragoste. Infine, poco prima della chiusura, arrivò Paolo Albini, detto Paoletto, impiegato dell’INPS, senza aspirazioni precise riguardo al pescato, solitamente contento di farsi andar bene gli ultimi avanzi.
– Cos’è rimasto, don Carlo? – esordì, leggermente affannato per la breve scalinata che conduceva alla pescheria.
– Guarda, ho un’ultima spigola che ha pescato Mimì stamattina – Carlo gli porse davanti agli occhi una bestia di chili tre, ancora profumata di mare.
Gli occhi di Paoletto Albini brillarono. Erano anni che, giunto alla fine della settimana, si recava quasi di corsa in pescheria per concedersi una pallida gioia culinaria che lo traghettasse in quei due giorni di solitudine, ipocondria e noia brutale che erano il sabato e la domenica di un cinquantenne scapolo e privo di particolari amicizie o pensieri. In un’esistenza siffatta, la qualità della cena del venerdì assume una notevole importanza nella vita di un uomo, ed erano mesi che il povero Paoletto era costretto ad accontentarsi degli ultimi avanzi di vongole, calamari avvizziti e tonni surgelati dell’Atlantico. Quella spigola di Mimì, argentea e carnosa, inspiegabilmente rimasta sino a fine giornata, fu dunque interpretata come un dono del destino, un invito a rinviare il tanto carezzato gesto finale.
– Forse è un po’ cara, però… – cercò di avvertirlo il buon Carlo, cosciente, più di Tonino il banchiere, delle disponibilità finanziare di ogni suo compaesano.
Troppo tardi. Con un gesto rapido e indiavolato, Paoletto aveva già poggiato sul bancone una cinquanta nuova fiammante, aveva strappato la spigola angelica dalle mani di Carlo ed era fuggito con un accenno di corsa, se solo fosse stato capace di correre, senza aspettare neppure il resto. Giunto in macchina posò la creatura sul sedile anteriore e la guardò, posseduto, nell’occhio di celluloide. Lei acconsentì a quell’amore appena sbocciato. Portami a casa, gli disse con voce suadente, portami a casa Paoletto. Accese la macchina. La benzina era finita. Ecco perché quei cinquanta euro prelevati, pensò Paoletto, ecco perché. In effetti, non era stato solo Carlo a rimanere stupito vedendo quella banconota fuoriuscire dal triste e consumato portafogli. Ma ormai era troppo tardi per pensare al passato. Casa non era molto distante. Prese la spigola tra le braccia, come fosse un neonato, e si diresse lungo viale Aldo Moro verso il grigio condomino che lo aspettava. Nel cammino, fece una breve tappa all’alimentari di Franco, l’unico a fargli ancora credito, e acquistò due piccole cipolle bianche, un rametto di prezzemolo, tre carote, un gambo di sedano, delle profumate foglie di alloro, un rametto di timo e due bottiglie di vino bianco, una per sé e una per la spigola.
Finalmente giunse a casa, febbricitante. Sorpassò la portinaia che sbiancò nel vedere il signor Albini, sempre riservato e cordiale, correre verso le scale con un animale di tre chili tra le braccia e quello sguardo assassino. Salì i quattro piani di scale con un’energia inaudita e via via crescente. Gettò le buste di Franco per terra, si caricò la spigola sulla spalla destra e con la mano sinistra frugò nella tasca: prese le chiavi, le infilò nella serratura, aprì, entrò, chiuse, volò in cucina, con un gesto secco dell’avambraccio rovesciò tutto il contenuto del tavolo per terra e lì, come su un altare, finalmente adagiò il santo animale, ormai suo. Respirò, ma non molto. Subito riprese il da farsi. Mise a bollire l’acqua e accese il televisore. Il telegiornale, come ogni sera, annunciava catastrofi planetarie, cambiamenti climatici, elencava tragedie familiari e disastri politici, narrava di fallimenti commerciali, borse crollate, venditori ambulanti uccisi a martellate. Il signor Paoletto Albini ridacchiò. Solitamente avrebbe accettato passivamente, seduto sul divano con dei tristi e insipidi spaghetti alle vongole, quelle notizie. Avrebbe persino dissentito col capo, facendo no, no e poi no; queste cose non dovrebbero proprio succedere, avrebbe pensato. Poi avrebbe interiorizzato dentro di sé quella colpa, quel sentimento di disfatta e di impotenza, fino a che il sonno non lo avesse spinto ad alzarsi e a concludere la giornata, con una voglia perversa di concludere la vita. Ma quella sera no. Quella sera tutto sarebbe cambiato. Quella sera Paoletto annuiva, eccome se annuiva. Sì, diceva, sì, sì, e poi sì, il mondo finirà, sta finendo, sì, annuiva: non sono solo io che finisco.
La spigola sfrigolava nel court bouillon, cresceva in odore, col timo che sfumava di un profumo più antico il raffinato e dolce alloro. Il vino lentamente evaporava, mentre l’altra bottiglia si svuotava nel bicchiere e poi nella gola di Paoletto. Il calore interno cresceva, il volume del televisore era ormai assordante, la spigola era quasi pronta. Tutto sfiorava la perfezione. La vitamina B6 avrebbe favorito la produzione di emoglobina e aiutato il processo di sintesi della serotonina, regolatrice dell’umore, del sonno e dell’attenzione. Il calcio avrebbe fortificato le ossa. Finalmente il signor Albini avrebbe potuto partecipare al calcetto con i suoi colleghi, per anni rimandato a causa dei problemi al ginocchio. Una sola spigola gli avrebbe salvato la vita. Lui lo sapeva, lo sentiva. Tutti i suoi nodi si sarebbero sciolti con il primo morso, con la prima sorsata di quel nettare santo.
Assaggiò per l’ultima volta il brodo con il mestolo ligneo: perfetto. Assaporò il vino bianco di Franco, giunto ormai a metà bottiglia: perfetto. Impiattò la spigola, versandole sopra la giusta quantità di brodo. Una lacrima gli scese dagli occhi, finendo anch’essa nel piatto. Paoletto Albini si sedette. Senza togliere né testa, né pelle, né coda, senza prendere in mano posate di alcun tipo, senza ascoltare più una parola di quel maledetto apparecchio, addentò. Eccome, se addentò. Un morso pieno, gaudente, felice, un morso con l’intera mandibola aperta, con gli occhi chiusi, con le papille gustative pronte all’impatto, all’orgasmo. Ecco l’alloro, poi il sedano, un tocco di vino, poi il timo. Ed ecco finalmente il sapore di mare, di pesce, di carne bianca e leggera, velluto. Deglutì lentamente, per il secondo passaggio della gioia: la sazietà, ma ecco che invece…una spina. Una spina? Una spina! Due spine, poi tre, quattro, cinque spine, di colpo! Conficcate in gola, nelle guance, nel collo. La lisca del pesce rimasto nel piatto fuoriusciva lampante. Il respiro diventò da flusso continuo un rantolo forato. Dolore, dolore crescente. Ma che sapore! Chiamare qualcuno? Correre, sfrenato, verso il telefono? Chiedere aiuto urlando? Con che voce? Morire aspettando l’arrivo di chissà quali soccorsi o accasciarsi per terra e abbandonarsi all’ironica e letale sconfitta? Che fare? D’un tratto, l’illuminazione. Paoletto Albini si gettò sulla spigola e, con ogni forza e fiato rimasto, continuò a morderla, a sbranarla con foga, mordeva, mordeva, mordeva con gesti automatici e netti. Ancora, ancora, Paoletto, finiscimi. Paoletto mangiava, e quando si mangia, finché si vuole ancora mangiare non si può morire. La lisca penetrava in ogni parte del suo corpo, forava le guance, mentre la vitamina B6 favoriva il flusso del sangue, e il sangue scorreva, scorreva ovunque. Le gengive erano un campo minato, i denti stringevano con una forza sovrumana la spigola, ferma, lì, impossibilitata alla fuga. Paoletto Albini ingurgitò un altro boccone. Poi la coda, poi infine la testa. L’occhio. I dentini. Lui e la spigola erano ormai un tutt’uno. Qualcuno disse che morì felice.