Notizie dagli scavi. Due ex voto
Ti ho visto che camminavi sul marciapiede lungo il viale, vicino alla fermata del bus. Ho accostato. Mi sono fermata. Fra di noi scorreva un fiume di tempo. Secoli. L’eternità. Non c’è stato nemmeno bisogno che suonassi il clacson. Ti sei girato a guardarmi. Il tuo sguardo mi trapassava, sembrava non mi vedessi. In realtà, mi vedevi eccome: sei venuto verso di me con naturalezza, già sapevi che mi avresti vista. Ti ho aperto la portiera dall’interno, sei salito. Mi aspettavi. Avevi delle cose da dirmi. Ora sei seduto accanto a me, non parli. Anch’io avrei tante cose da dirti, ma non riesco a parlare. Nel silenzio sento solo il tonfo sordo del mio cuore. Ci guardiamo a lungo, io incredula tu, tu non saprei come dire, tu rassegnato. «Sei così giovane». La mia voce emerge dalle profondità in cui prima è sprofondato e rotolava il mio cuore. Hai addosso il giubbotto jeans di venti, che dico, trenta anni fa, scolorito, qualche strappo qua e là, come andava di moda allora. I riccioli ti toccano il colletto. Ancora quel gesto di scostarli con un dito. Eri così alto. I lineamenti così marcati. Avevi tre anni più di me. Ora potrei essere tua madre, potresti essere mio figlio. Sei minuto, i tratti delicati. All’improvviso ho 29 anni più di te, e li dimostro tutti. Li vedo sfilare uno a uno nei tuoi occhi che si fanno acqua. Come faccio a spiegarti che io ora sono felice, non allora che eravamo giovani, come faccio a dirti che sono sopravvissuta a te ma anche a me stessa? Come faccio a dirti che sono invecchiata bene, che se mi guardo nello specchietto retrovisore vedo solo rughe e un cedimento strutturale generalizzato, e quei due capelli bianchi che ho in testa all’improvviso mi sembrano la cosa più visibile di me. Mi vergogno. Mi sento in imbarazzo per averti fatto salire in macchina. Sono una donna di mezza età, perché quello sono, che ha caricato in macchina un ragazzino. Mi chiedi di mettere su una cassetta, fai per tirartela fuori dal taschino come trent’anni fa, non ci riesci. Le tue mani non hanno presa sul bottone. Per consolarti ti dico che le musicassette non esistono più, che in macchina non ho il registratore, che adesso abbiamo i telefonini e le chiavette Usb che dentro ci scarichiamo tutte le canzoni che ci piacciono, tutte le foto, e tutto il nostro mondo adesso è scaricabile con un clic, e a volte è utile e bello, a volte è solo una complicazione in più e per questo io non ho nemmeno il lettore Usb. Mi guardi senza capire, ti limiti ad annuire. Mi dici Che peccato, l’avevo preparata per te questa cassetta, prima di uscire quella sera. Avevo intenzione di portartela il giorno dopo. Fingo anch’io di non capire, di non sapere che sera è la sera di cui stai parlando. Invece una parte di me è rimasta lì, in quella sera, a guardare dentro il fosso, a guardare dentro l’abisso. Svoltiamo verso Marinella, ora la chiamiamo Luni, come gli antichi Romani. Non più Ortonovo, Dogana di Ortonovo, Marinella di Sarzana, è tutto Luni ora, l’anfiteatro dove eri venuto a fare la foto con il tuo gruppo Bombe Carta neanche foste una vera rockband ora è impacchettato e chiuso al pubblico, ci si può venire solo con le guide del museo, e dall’autostrada hanno fatto persino uno svincolo con una passerella sopraelevata che sembra un’astronave per venire qui e c’è un museo recintato e camminamenti tutti nuovi e curatissimi e hanno addobbato a festa persino la baracchetta delle rane ricordi, che io ci venivo con voi per sentirmi grande e alternativa ma le rane mica le mangiavo, per l’amor di Dio, e chissà se le mangiavate anche voi, eravamo bambini, bambini che giocano a fare i grandi e poi il destino gli gioca uno scherzo di quelli tremendi, e rimangono tutti lì, a guardare dentro l’abisso.
Io piango, tu mi asciughi le lacrime, sono le lacrime di questi trent’anni, di non averti saputo fermare di non esserci stata, di non essere stata innamorata di te, che magari se ero innamorata di te quella sera uscivi con me e non finivi così. Guarda che non ti ho mentito la notte delle diomedee, mi dici con dolcezza. Sussulto. Avevo dimenticato le diomedee. Avevo dimenticato la tua dolcezza. All’improvviso sono tornata giovane, le guance non hanno più la piega triste che hanno ora, e che però non corrisponde a quello che provo, il sorriso è di nuovo quello radioso che avevo allora, e che però non corrispondeva a quello che provavo. Guarda che ti ho perdonata davvero, ripeti. Lo sapevo che non eri innamorata di me, ho provato a tirarla avanti per un po’ ma lo sapevo, non è stata una sorpresa quando mi hai detto Torniamo a essere amici, la vera sorpresa è stata quando ho ritrovato la Vespa in garage, che se avessi avuto un telefonino in tasca di quelli che avete oggi ti avrei chiamata subito, Vieni a riprendertela, dai, non preoccuparti, siamo ancora amici. Te l’ho detto nella rabbia che non volevo più vederti, ma mica lo pensavo davvero, tempo due giorni e mi passava. Quella notte non sarei comunque uscito con te, era un patto fra noi ragazzi, niente donne stasera, pensavo di vederti la sera dopo, per questo ti avevo preparato la cassetta, non ce l’avevo con te. E non ero ubriaco, non avevamo ancora bevuto, nemmeno un bicchiere di spumante per festeggiare, ho avuto solo un colpo di sonno mentre facevamo i cretini, avevamo finito gli esami tardi e non avevo ancora dormito nemmeno mezz’ora. E poi non credere, nessuno di noi è così importante da decidere il corso degli eventi, né tu, né io, nessuno di noi, eri solo una ragazzina dai, che colpa ne avevi a non essere innamorata di me, il mondo dovrebbe finire allora, se ogni ragazzo mollato dovesse finire male come sono finito io. Luni è un posto magico, mi dici, e come ho fatto io a non capirlo prima cosa era, con quel cielo basso e grigio quando il tempo è brutto e cielo e mare sono un’unica cosa plumbea e poi quell’insenatura, ma davvero come ho fatto a non pensarci prima, che quando ero ragazzina alle prese con la prima patente una volta al curvone di Marinella, quello che divide la Toscana dalla Liguria, pioveva fitto ma così fitto che sembrava di attraversare un muro di pioggia e poi in un istante preciso all’improvviso aveva smesso di piovere come se da una dimensione fossi entrata in un’altra. E insomma Luni è un luogo magico, e per questo prima ci siamo visti sul viale e sei venuto verso di me e io ti ho caricato in macchina come se ci fossimo visti l’ultima volta ieri e non trent’anni fa, eri venuto a prendermi nella mia dimensione per portarmi qui, dove sei morto e dove c’è qualcuno che vuole parlare con me. Non capisco. Ti chiedo chi è, non mi rispondi. Scendi dalla macchina, mi dici di seguirti, di stare attenta, mi tiri via quando passiamo sull’orlo dell’abisso. Andiamo sulla spiaggia. Eccolo, mi dici. Arriva.
Mi volto verso il mare, vedo un motoscafo che costeggia la spiaggia. Non si mantiene alla giusta distanza, non si ferma alla boa. Approda a riva. Strizzo gli occhi per leggere la marca sul fianco. Glastron. Scende un uomo di mezz’età. Ha solo qualche anno più di me. È abbronzato, esperto, ha gli occhi pronti, mani veloci. Manovra la barca da Dio. Mi guarda ma non viene verso di me, porta a termine con decisione le manovre di ormeggio. Emana una calma sovrannaturale. Rimango impietrita. Prima che io riesca a muovermi, mi chiede se ce l’ho ancora con lui. Ma no che non ce l’ho con te, grido. Scrolla le spalle, Alla fine ce l’hai fatta a fare quello che volevi, io ho sbagliato tutto, ero un essere umano, e allora cosa vuoi ancora da me? Tutto quello che ho trattenuto erompe dal mio cuore dal petto dalla gola come un uragano, il dolore compresso, la rabbia, gli anni perduti. Che tu non te ne fossi andato, grido. Che non ti fossi fatto travolgere dall’essere sempre il numero uno, che sai negli anni quanti ne ho visti sbagliare poi, sbagliano tutti, i numeri uno come i numeri cento, sbaglio anch’io, tutti si autoassolvono, tutti si perdonano, si giustificano, vivacchiano, si nascondono. Ti sei ammalato, e non vorrai mica dirmi che è stata la zona industriale, no, è stato non avere accettato l’errore, l’essere andato in mille pezzi, è stata la furia che ci hai sempre messo, che se andavi più piano adesso eri ancora qui e c’era anche la mamma. Che sono anch’io come te, incapace di fare gruppo, di confondermi nel gregge, di accettare i miei errori, e per questo alla fine rimango sola, perché tutto mi sembra un’irrimediabile stronzata, la politica la fede l’appartenenza sociale il progresso la tradizione il destino. E che ormai credo solo in questa santa trinità che ho messo su con mio marito e mio figlio, credo solo in noi tre anzi in noi quattro, che adesso c’è pure il cane, e adesso la mia Sagrada Famìlia è completa, mancate solo voi. Che a fare quello che volevo ci sono arrivata troppo tardi, e questo è stato il mio peccato peggiore, non credere in me stessa, ma siete stati voi a non insegnarmela la fiducia, la speranza, solo la testardaggine, e però non sai quanto mi manchi, che davvero vorrei farti conoscere mio marito e mio figlio e non sai quanto parliamo di te, quante risate ci facciamo coi tuoi modi di dire che sono anche i nostri, che eri davvero il migliore, il migliore degli etruschi, ma poi è arrivata Roma e ti ha inghiottito e allora cosa importa, se ora non ci sei più. Ti rimproveravo di essere borghese, anche un po’ di destra, che essere liberali o democristiani o repubblicani per le ragazzine di buona famiglia che volevano fare le alternative come me significava essere di destra, che è un po’ quello che diceva Pasolini dei finti rivoluzionari e dei poliziotti no?, ti rimproveravo il Rotary e l’Accademia della cucina italiana, ti rimproveravo di essere un carrierista, e invece oggi so che eri solo un lavoratore, che ti portavi dietro i tempi del lavoro dei campi, delle fabbriche, che a quei tempi il lusso di gestirsi il tempo da soli non esisteva, nemmeno da liberi professionisti, esisteva solo lavorare, e tu lavoravi, caspita se lavoravi, eri uno che si era fatto un gran culo e da solo era arrivato più in alto di tutti, solo che più in alto sale la scimmia e più quelle sotto le tirano le pietre, me lo dicevi tu no, e io per questo ho sposato un uomo di sinistra anche se oggi la sinistra non esiste più, perché anche lui era salito più in alto di tutti e però l’avevano già tirato giù ma lui era sereno lo stesso, è lì che ho deciso che era l’uomo che volevo, perché aveva perso ma non gliene importava nulla, e avevi ragione tu sai che il mondo è uno schifo e appena metto piede fuori dai miei quattro muri mi sento un vaso di cristallo tra i vasi di ferro, ognuno che va per la sua strada e io sempre in mezzo a farmi male.
Piango, di nuovo. Non so che fine ha fatto la mia ironia, che era anche la tua, mi tornano in mente solo i tuoi occhi degli ultimi giorni, quelli gialli, quelli di quando non sapevi perché non volevi sapere ma in realtà sapevi già tutto, e come avresti fatto a non sapere, quelli spiritati di quando pensavi che tutti fossero contro di te, mi tornano in mente solo gli anni dopo la tua morte, lo studio che ci è crollato addosso, gli avvocati che ci giravano intorno come squali, e certo non per l’edizione Einaudi del Teatro di Shakespeare con dentro la lettera autografa del traduttore, Cesare Vico Lodovici, che di quella importava solo a me, mi torna in mente la tua ultima frase la sera prima di andartene, Sbrigati a laurearti, io che ho fatto quello che potevo, e dopo, dopo che è stato tutto ancora più disastroso. Mi viene in mente solo questo di te e di me, non quando mi chiamavi Nougat girl perché mi ero vestita color nocciola o quando mi tenevi sotto un braccio mentre guardavamo un film e intanto mi accarezzavi la guancia e io ti dicevo Smettila che mi dai noia, non le volte che ti arrabbiavi perché quando andavi a riposarti dopo pranzo io tenevo la musica troppo alta, o stavo al telefono per ore seduta dietro la porta di casa, non quando da piccoli ci portavi a fare il muschio per il presepe col coltello piatto nel cortile della nonna, che chissà perché il tempo al tuo lavoro per fare il muschio glielo rubavi sempre. Vorrei che tu fossi stato nonno almeno per un giorno, almeno per un anno come ha fatto la mamma, vorrei che tu avessi portato tuo nipote in barca, in moto o a fare il muschio, vorrei che tu avessi conosciuto la parte migliore di me. Abbracciami gli dico, Ora ti ho perdonato, avevi ragione, ero ancora un po’ arrabbiata con te, che te ne sei andato così presto, e mi hai lasciata sola, ma oggi so che non potevi rimanere di più, perché hai vissuto tutto a mille, ma lui non mi risponde, è solo aria. Mi giro a cercarti con lo sguardo, ma non trovo più nemmeno te.