La lettera
La vita ci obbliga troppo spesso a vivere con i fantasmi
L.F. Céline
Poi è arrivata quella lettera e io non ho avuto il coraggio di aprirla subito. Nostra madre lo aveva già fatto e dopo averla letta per intero l’aveva sigillata nuovamente senza lasciar tracce, come se non fosse mai stata toccata. Me l'ha consegnata accompagnata da un silenzio più profondo del solito. Io l’ho avuta fra le mani, incerto e già tremante di pensieri pregressi e premonitori, confuso maggiormente dopo aver notato che la busta era a lei indirizzata e non a me, ma non sono bravo, lo sai, a leggere negli occhi delle persone a me care, mi siedo su una comprensione superficiale delle cose, accavallo le gambe e accendo una sigaretta. Come avrei dovuto invece captare e interpretare le onde che mute vibravano così forti in quello scambio di mani, nel gesto apparentemente comune e quotidiano. Lei aspettava il mio dolore per buttarcisi dentro, per essere affiancata all’apertura del terreno sottostante, per cadere insieme e bagnare il pavimento delle stesse lacrime. Lei aspettava me, ora, e mesta si aggirava per la casa con un coraggio di donna che rimpiango di non aver saputo riconoscere e onorare prima, nel momento opportuno.
L’ho guardata a lungo, quella lettera, come si guardano i capelli e il profilo della ragazza che ti giace accanto al primo sole di una notte d’amore, ma il coraggio è mancato, mi sono voltato dall’altra parte vile e infingardo, rimpiangendo di non essere te e di non essere mai stato capace di affrontare le intemperie e il freddo a viso aperto e fiato sicuro, braccia stese e pugni chiusi. L’ho abbandonata lì sulla scrivania, implorando l’impeto di giungere rapido dalle mie viscere, implorando senza speranza che arrivasse poi davvero e così ho fatto del male a te, fratello mio, e a lei, perché ancora una volta ho lasciato che l’incertezza vincesse su quattro righe di parole stampate, sempre uguali, su migliaia di altra carta, migliaia di altre lettere, di altre buste e di altre madri. Ma la vita è comunque sempre più prepotente delle paure e delle debolezze e la mia ignavia non è stata ripagata se non con un marasma di doppia sofferenza e vergogna. Esistere con te e senza di te non è mai stata la stessa cosa e non è così banale come potrebbe sembrare. Non perché tu sei sempre stato più intelligente, brillante, vivace, sua àncora e sorrisi mai scuri e un saluto prima di partire e un bacio al ritorno. Lo è stato perché la mia invisibilità sorda si nutriva amabilmente della tua presenza ingombrante e ad un tratto è rimasta scoperta, nuda e irriconoscibile persino a sé stessa, come la mia ombra ha perso, senza possibilità di ritorno, il confine certo dato dal lampeggiare sempre acceso del tuo faro, la cui luce anche lontana giungeva senza affanni sulla nostra soglia e mai bastavano urla e schiaffi a rabbuiarla, leggermente si affievoliva solo quando le porte sbattevano inspiegate e la mia testa affogava in un bicchiere troppo grande e troppo pieno e la sua in un cuscino soffocante grida e pioggia. Lo è stato perché quella busta mi è stata strappata davanti agli occhi da occhi pieni di rimprovero e odio sferzante, lo è stato per le mie lacrime mai sgorgate e per lo schiaffo successivo, la sua mano allungata sulla guancia destra. Ciò che unicamente mi consola è la magra consapevolezza che tu avresti capito la mia sciocca paralisi, avresti accennato una smorfia benigna e una pacca sulla spalla, una semplice pacca sulla spalla. Ed ecco che ora, nell’istante estremo in cui ti ho nuovamente di fronte, sorpassando quello stupore che non ho mai conosciuto, riconosco alla perfezione ogni tuo lineamento, ogni tuo dettaglio, mentre lentamente ciò che mi appartiene, il tratto, il volto, svanisce sfocato e non ho voglia di inseguire più nulla. La spaccatura si allarga ancora e questa volta nessuno arriverebbe a salvarmi.
Perdona, fratello, la debolezza che mi ha impedito di credere in quel futuro che tu con tanto vigore annunciavi florido e colorito. Scusa per aver scialacquato senza rimorsi il talento, per aver lasciato che la casa andasse in malora, per aver confuso i miei passi con le foglie dell’autunno, per non essermi fatto trovare, per essere stato cieco, per aver cercato altrove un altrove che non esiste, per non averlo cercato in me, per essermi immedesimato con l’oscurità della notte e la pigrizia di non aver acceso l’ultimo fiammifero. Ti chiedo scusa per averti usato così spesso e con così tanta ingenua convinzione come giustificazione del mio fallimento, per non aver regalato più nulla, per essermi raggomitolato, strappato le radici, per aver vagato noncurante e chiuso alle aperture del cammino. Non sono mai riuscito a possedere la lucentezza del tuo sguardo, quella tua naturale capacità di catturare ogni sfumatura con un respiro profondo e le palpebre serrate, e il tuo pensiero chiaro e diretto, abile a declinarsi con semplicità e candore. Perdona il mutismo, l’apatia, la noia, il volgare procedere di bottega in bottega, i pianti singhiozzanti ai crocicchi delle strade, i ruggiti futili, i discorsi inespressi, il turbinio di fantasmi e apparenze che come spessa nebbia mi ha offuscato la vista per anni, impedendomi di riconoscere i segnali che mi avrebbero ricondotto al focolare dove un tempo ascoltavo impaziente le storie che mi raccontavi al finir del giorno. Oh sì, quelle sì che erano storie meravigliose e per ore rimanevo incantato e mi cullavo nella tua scia benevola e mai spigolosa, piccolo e sognante.
Questa tua apparizione non fa che suggerirmi che il tempo in realtà non scorre, va e poi ritorna, ripiegandosi su sé stesso. Le storie sì, quelle finiscono, così come le carezze e i fuochi, nonostante la legna e la premura. Il ricordo non è che un’altra forma di esistenza, che non si arroga il protagonismo dell’esistenza reale, quella dei fatti e degli avvenimenti fatui che si rincorrono ignorandosi. La sorella minore che non viene citata in nessun testamento. Su di me i ricordi hanno vinto, ma ora non ricordo più d’aver vissuto. Non ho più memoria dei canti nel giardino, delle baruffe a scuola, delle serenate sotto il suo balcone, degli innumerevoli viaggi, dei volti di coloro che così ferocemente ho scansato lungo il cammino e di coloro che invece si dono donati a me con slancio, a me, mai capace di accoglierli. Non ho mai avuto la forza di pronunciare le parole che mi avrebbero salvato, mi sono riempito la bocca solamente di quelle secondarie e accessorie, che brillano per un minuto o forse un secondo e poi non interessano più a nessuno, nemmeno a colui che le ha proferite. Ho tradito la vostra fiducia e non sono riuscito a pentirmene. Meglio dunque tacere ora, il silenzio ci perdonerà.