Le estreme conseguenze
1,
Mentre sei seduto alla scrivania – fissando con gli occhi intorpiditi lo schermo [senza realmente guardare il Nuovo Documento: vorresti scrivere una lettera da indirizzare a Miriam (ancora non hai digitato nemmeno una parola: non hai pensato nemmeno a una parola da scrivere – sai se sai cos’è che pensi?, forse)] – senti un odore acre provenire dal basso – dal pavimento?, forse; dalle tue gambe?, forse.
Ignori l’odore, rimani fermo con la faccia che ti sembra stia affondando (sempre di più, sempre di più) nella luce emanata dal vecchio HP – non saprai mai da quanto tempo rimani così: non guardi l’orologio da stamattina, sai solo che è sera, e lo sai perché hai lasciato aperte le imposte delle finestre e il sole, dunque, a un certo punto, è stato sostituito definitivamente dal baluginare giallastro e fioco dei lampioni di vicolo Posterla, e in casa si è fatto sempre più buio (tu ancora non hai acceso nessuna luce – perché sei in una luce).
L’odore diventa molto fastidioso, ti è ormai difficile ignorarlo. Stacchi, alla fine, lo sguardo dalla nebulosa bianca e azzurra, guardi verso il basso. Non riesci a mettere a fuoco nulla, ti bruciano gli occhi. Tasti i pantaloni del pigiama. Quando passi le dita tra le gambe senti una consistenza strana, come una crosta unta. Deduci che l’olezzo viene da lì – e lo confermi avvicinando al naso la mano con cui hai intercettato lo sporco. Ti pulisci le dita sulla maglietta, poi ti stropicci gli occhi. Ti dai forza con un sospiro e ti alzi, cerchi a tentoni l’interruttore. Quando la luce si accende (pallida, lentamente, per fortuna: la lampadina è a basso consumo) quasi sobbalzi, perché ti trovi, inaspettato, riflesso nello specchio a muro che è accanto alla scrivania, ed è come se avessi del tutto dimenticato che lì, in quel punto della camera, c’è sempre stato uno specchio a muro – hai la sensazione di mettere per la prima volta piede in quella casa: per la prima volta ti vedi riflesso in uno specchio.
Come se ti fossi scordato di te stesso. Non dello specchio.
2,
Ti guardi, ti sembra di ricostruirti. Hai la faccia gonfia e rossastra, circondata da una barba riccia e puntellata di pezzetti bianchi – briciole?, forse; sebo?, forse. Brufoli nuovi sparsi sulla fronte – i tre hamburger (Bacon King 3.0) e due kebab (wrap completi con aggiunta di funghi alla pizzaiola e guacamole) che hai mangiato ieri tra pranzo e cena e che fino a due ore fa ti hanno costretto ad attacchi di diarrea bruciante?, forse. Occhiaie profonde – l’aver preso sonno (quasi svenendo) alle quattro ed esserti svegliato (per la sete) alle sette e mezzo (senza possibilità di riprendere sonno perché tormentato da rigurgiti e fitte allo stomaco)?, forse. La maglietta bianca, enorme ma che comunque ti va stretta, chiazzata di grumi scuri – la salsa barbecue di ieri sera?, forse. E la macchia tra le gambe – ocra?, forse: è un colore difficile da decifrare – incrostata sui pantaloni del pigiama azzurro – piscio?, forse; sperma?, forse: ti capita sempre più spesso di pisciare senza fare realmente caso a quello che stai facendo (ti rendi conto che, se pensi all’ultima settimana, fatichi a trovare un ricordo di te che pisci); ogni volta che ti masturbi ti pulisci sommariamente e rimetti rapidamente le mutande, noncurante di eventuali ulteriori secrezioni.
3,
Con uno scatto che oscilla incomprensibilmente tra uno schifato subito e una (goffa?, forse) fierezza ritrovata, lasci l’immagine nello specchio e vai deciso verso il bagno. Sai che stai provando a convincerti che è arrivato il momento di fare una doccia: tenti di ristabilire sul tuo corpo il ricordo delle sensazioni che provi ogni volta che ti lavi. Pensi con concentrazione quasi disperante agli effetti benefici che ha su di te una doccia calda. L’ultima volta è stata, ti pare, una settimana fa. Sì, certo: esattamente una settimana fa, quando è cominciato tutto – quando hai fatto una doccia bollente, lunga, avevi messo un lungo brano su YouTube, una suite dei Reverend Bizarre, e sei stato in qualche modo bene, hai sentito la pelle che si distendeva, con la coda dell’occhio scorgevi un fumo leggero dipanarsi dalle spalle, riuscivi quasi a percepire i pori dilatarsi sotto l’imbarazzante coltre nera di peli del tuo petto, poi hai cercato il pigiama, col progetto in mente di prepararti per la notte, metterti a letto portandoti sotto le coperte la sensazione maternamente confortevole del bagnoschiuma alla vaniglia, ma del pigiama hai trovato soltanto i pantaloni, la parte superiore l’avevi macchiata di caffè e perciò era nel cesto dei panni sporchi, allora hai aperto il cassetto dei vestiti estivi e hai preso una maglietta bianca, in casa la temperatura era tutt’altro che fredda (l’autunno si era presentato mite, nel primo pomeriggio eri andato a fare la spesa e ti eri attardato un po’ per le stradine del quartiere; camminare era rasserenante, ti era piaciuta molto l’aria fresca sul viso mentre vagavi nel sole tra i castagni dei giardini pubblici), hai indossato la maglietta constatando il buon profumo e approvando l’acquisto di quel nuovo ammorbidente che avevi trovato in offerta giorni prima, poi hai acceso il computer con l’intenzione di scegliere un film da vedere in streaming prima di dormire, una commedia italiana, una di quelle vecchie che ti piace rivedere quando ti senti in qualche modo bene, hai cercato su Google chiedimi se sono felice streaming gratis, poi però il tuo cellulare ha squillato, Miriam, una settimana fa, quando tutto è cominciato – o quando tutto è finito: e ora ti ritrovi, spaesato e poco consapevole, accartocciato tra le lamiere delle estreme conseguenze.
4,
Per arrivare in bagno devi passare dalla camera da letto. Incrociare dunque il letto – che è sfatto, da una settimana. Fissi il letto per un po’. Vorresti stenderti. Lo vorresti tantissimo. Dormiresti, forse, finalmente. O forse no – magari inizieresti a guardare YouTube dal cellulare, un video dietro l’altro, cose che non ti interessano, inchieste de Le Iene, i terrapiattisti, Scientology, Young Signorino, recensioni di film che non vedrai mai, parodie dei discorsi di Matteo Salvini, cose che davvero non ti interessano, cose che ti tengono soltanto sveglio, e non sai perché lasci che ti tengano sveglio quando la cosa che più desideri è dormire.
Guardi verso il bagno. La porta è socchiusa, intravedi il box doccia, il manico incrostato di calcare. Quasi non te ne rendi conto ma, invece di andare in quella direzione, fai un passo verso il letto. Il tuo corpo rimbalza sul materasso duro, la rete cigola rumorosamente. Sai che stai per scoppiare a piangere. Sai anche il perché – nitido e lucido, il perché: non è la tua condizione apatica, non è la tua sporcizia, non è l’assurdità del non avere nemmeno la forza di farsi una doccia. È per il cigolare della rete: per quello adesso stai per scoppiare a piangere. È per Miriam che adesso stai per scoppiare a piangere – per Miriam, per te, per Miriam e te su quel letto, per la rete che cigolava.
Non scoppi a piangere. Fai solo un gemito, breve. Ti sollevi, ti metti seduto. Hai l’affanno – gli oltre quaranta chili che dovresti perdere per scendere sotto la soglia dell’obesità?, forse. Ti rimetti in piedi. Fissi quasi con sfida la porta socchiusa del bagno. Epifanico, un rumore. Il cellulare che vibra – aspetti un attimo per capire se vibrerà ancora. Lo fa. Aspetti un altro attimo: vibra ancora. Vai verso la scrivania, sei certo di averlo lasciato lì. Una rapida occhiata: sulla scrivania c’è il computer, c’è una montagnola di tovaglioli sporchi di roba scura – la salsa barbecue di ieri sera?, forse. Il cellulare non c’è. Non senti più la vibrazione. Ti guardi attorno, come se il cellulare fosse una zanzara e potesse aggirarsi nell’aria o appoggiarsi su un muro. Ti senti molto stupido, ti rimproveri mugugnando in dialetto bestemmie contro te stesso. Vai verso la cucina – che è minuscola, due fornelli, un mobile precario dove stipi temerariamente i piatti e le stoviglie, un lavandino: dal quale proviene, ora, il suono del cellulare che vibra, ci guardi dentro, incredibile: il cellulare non è lì, eppure tu ne sei certo, hai sentito il suono del cellulare che vibrava, lo hai sentito chiaramente provenire proprio da lì. Eppure no, non c’è, anzi, ecco, un’altra volta il rumore, vibra, questa volta più distante, forse, o così ti pare, ormai sei spaesato, e ti senti sempre più stupido, non sai più se credere ai tuoi sensi [ecco, sì, ti basta un niente per arrivare a mettere in discussione finanche il tuo corpo (o meglio: le tue capacità corporali, ecco, quelle, sì, ti basta poco per arrivare a metterle in discussione)], e intanto ancora il vibrare del cellulare. La testa ti si muove di scatto verso il bagno. Ne sei certo, viene da lì. Vai, rapido come non lo eri da mesi: felino, quasi (o almeno così ti percepisci: ma il tuo corpo è in discussione, in questo momento, e non lo dimentichi), scatti verso il suono del vibrare che non smette, oltrepassi il letto riuscendo a non degnarlo di uno sguardo, ti getti nel bagno.
5,
Accendi l’interruttore: adesso il suono del cellulare che vibra è sempre più nitido – forte, ormai. Il bagno è minuscolo, nel riquadro di pochissimi metri sono riusciti a organizzare un lavandino, una lavatrice, un box doccia, un water – con bidet incluso: una di quelle cose giapponesi inventate per risparmiare spazio; ti chiedi se quel bastardo ha parenti giapponesi [ti stai riferendo al proprietario della a casa (al quale paghi un affitto che…)] e poi ti blocchi, ed eccolo, nel box doccia, sul ripiano deputato al sostegno dello shampoo antiforfora che usi per la barba: eccolo lì, il cellulare; lo prendi, pensi una bestemmia (soltanto contro te?, forse) mentre guardi la schermata.
È scarico – è in modalità risparmio energetico, ma ha solo il 2% di batteria residua – e ci sono decine di chiamate senza risposta; centinaia (di migliaia?, forse) di messaggi su Whatsapp, provenienti da tua madre e, specialmente, da cinque gruppi in cui sei stato incluso senza aver mai dato il consenso [Fantacalcio!!! (incomprensibile presenza nella tua vita digitale: hai smesso di giocare al fantacalcio almeno dieci anni fa e da altrettanti anni non vedi la maggior parte delle persone che popolano quel gruppo); I big della festa (gruppo dal nome caustico, forse l’unico in cui la tua presenza non ti pare del tutto insensata, poiché composto da te, Michele e Alberto, gli unici amici che definiresti tali); Reunion VA (immondo accumulo di ex compagni di classe: quelle persone che hai sempre considerato mediocri menti liceali e che, a distanza di dodici anni, tali sono rimaste e lì in quel gruppo, triggherate dall’ipotesi di una rimpatriata, sovraccaricano la chat con quotidiane testimonianze delle loro esistenze posticciamente borghesi: in prevalenza bambini che fanno cose, elettrodomestici nuovi e gesta di calcetto in tristi campetti di qualche periferia salentina); Eravamo quattro amici al bar (improbabile bazar di persone che, per la maggior parte, non hai mai conosciuto: sei stato inserito dal proprietario del bar sotto casa, il quale, non ricordi quando né come, ti estorse il numero di telefono, e che adesso egemonizza il gruppo con condivisioni di meme maldestramente erotici e/o locandine degli eventi di karaoke previsti nel suo locale); Hai mai conosciuto qualcuno del segno del Sagittario? (gruppo con un nome immotivatamente “segreto”: ti ci ha aggiunto tua madre, all’interno vengono condivisi principalmente annunci di lavoro e link che rimandano al Blog delle Stelle – quest’ultima tendenza dovrebbe, credi, motivare almeno in parte la scelta del nome “segreto”: pare che tra i membri serpeggino costanti la paura di un complotto politico sempre dietro l’angolo, il sospetto che qualcuno vi stia spiando tutti per carpire i dati delle vostre vite col fine di realizzare un nuovo ordine mondiale manipolatore eccetera, eccetera)].
Guardi l’elenco delle ultime chiamate: sono tutte di tua madre. Premi il tasto “Richiama”. Risponde dopo nemmeno uno squillo. Ti urla frasi in dialetto, con un tono tra il disperato e il rincuorato. Tu la interrompi, le dici che il telefono sta per scaricarsi, che la richiami appena puoi. Il telefono effettivamente si scarica del tutto. Ti si spegne tra le mani, lì, davanti al box doccia. Lo fissi, il box doccia. Indugi con lo sguardo sulle parti in acciaio costellate di chiazze biancastre. Appoggi il cellulare sul bordo del lavandino. Abbassi i pantaloni del pigiama, sfili via la maglietta. Apri l’acqua calda al massimo. Ti rendi conto che è come se non fossi tu.
Ti rendi conto che stai pensando, un pensiero forte e strutturato, nitido e, a suo modo, profondo, finalmente, di nuovo: “Finalmente, è come se non fossi io”. Mentre un getto di acqua bollente ti colpisce in faccia, fino quasi a farti male. E quasi sorridi – piangendo?, forse, mormorando: […].