Finché morte non ci separi
Ho deciso. Ti ronzerò intorno fino a che non avrò scoperto una piccola ferita, taglietto quasi invisibile sulla tua pelle. Con i miei mille occhi di mosca non sarà difficile scoprirlo, il taglietto; ho tutto il tempo che voglio per scrutarti fin nei minimi particolari: con le zampette pelose mi aggrapperò ai tuoi pochi capelli e analizzerò centimetro per centimetro il cuoio capelluto, tra le scaglie di forfora. E se lì non troverò uno spiraglio giusto, allora ronzerò silenziosa sul tuo collo, pronta ad evitare le tue manate sudate.
Tra i peli della tua barba ben rasata e profumata mi concederò un attimo di riposo, godendomi la sniffatina alcolica a tue spese: mi piace il tuo profumo, anche se spesso sei troppo pulito per i miei gusti affamati di unto, di grasso, di polvere.
Mi consolano però le tue mani, sempre odorose di sigaro… le briciole di tabacco mi fanno impazzire; in questo sono un po’ viziosa.
Forse ti è scappato un piccolo taglio facendoti la barba questa mattina; forse ti è tremata la mano ancora un po’ stanca dell’inutile notte: lì troverò uno spiraglio e la vendetta avrà inizio.
Tutto è cominciato quando ho preso ad abitare su di te. Curiosa per il tuo andare e venire, incontrare, parlare e agitarti; infatuata da tutti i profumi del tuo alito che di ora in ora cambiava sapore: prima fresco come la menta, poi pungente come il tabacco. A volte mi ubriacavi con il fiato di gin. Così, per un tempo eterno, mi sono goduta ogni angolo di te, tanto che niente sembrava più esistere: né la frutta marcia sul tavolo, né la muffa dietro la tazza del gabinetto, nemmeno l’odore del mercato del pesce in fondo alla strada, che mi aveva sempre fatto venire voglia di volare lontano. Le zampe anestetizzate, mi sono resa conto di non saper più esplorare in giro; le ali rattrappite, mi sono accorta di non saper più liberarmi nell’aria.
Incapace di tornare quella di prima, ho cominciato a odiare il mio ronzare sulle tue giornate di sigari, aliti, polvere. Quale strana forza mi teneva legata a te; quale ragione mi impediva di tornare a prendere la mio volo come tutte le altre mosche? Forse avevo paura dell’aria che sa di mosto, della sottile eccitazione che dà la mota sotto le zampe? No. Era qualcosa di più vischioso e denso che mi teneva legata a te: piano piano, senza rendermene conto ero diventata come te, fatta dei tuoi stessi umori.
È per questo che ho preso ad odiarmi per la tua stupidità, la tua obesità, la tua ruvidità, la tua pulizia, il vuoto tra le tue ciglia e la mia incapacità di fare a meno di tutto questo.
Una situazione del tutto innaturale quella di odiare. La mia esistenza fastidiosa prevede l’indifferenza e tu hai interrotto la logica della mia vita.
Quando ho realizzato l’enormità della tua colpa mi è venuta l’idea dello spiraglio, una via d’uscita che mi permettesse di liberarmi dalla puzza del nero che avevo cominciato a emanare.
Vicino all’unghia del pollice vedo una pellicina scorticata a sangue, tutta smangiucchiata dai morsi della tua insicurezza: ecco lo spiraglio della mia vendetta. Lì mi poserò e comincerò a scalfire la ferita con una zampetta lurida; poi infilerò la piccola proboscide ancora odorosa e unta del mio pasto; aspetterò ancora un poco per entrare in profondità, dentro di te e da là dentro riprenderò finalmente la mia vita perché di certo finalmente sarò io a decidere.
Eccomi: la trasformazione è avvenuta, i peli sono diventati ciglia sottili che vibrano. Non ho più occhi, più ali, più zampe. Sono solo una bocca, in un piccolissimo corpo che pulsa. Le ciglia mi fanno muovere. Non ci metto molto ad abituarmi alla nuova vita: non è più monotona dell’altra.
Viaggio attraverso i tessuti, gli organi, le sostanze del tuo corpo, cominciando a valutare i tuoi punti deboli.
E quanti ce ne sono! Grazie alla tua incapacità di organizzare la mente, anche il corpo ha imparato a vivere per conto suo: ogni organo vive di vita propria, a danno di qualche tessuto vicino, da parassita. Ogni volta che tu respiri, che mangi, che parli, una piccola lotta di potere si scatena tra nervi, vene, cellule e parti molli. Ogni pezzo pretende qualcosa di diverso e la mente non riesce (non vuole) organizzarsi con disciplina.
Ho trovato il posto che fa per me nel tuo bel piloro. Mi piace perché mi ricorda un po’ le atmosfere della mia vita di prima. Qui ho cominciato a scalfire la trama delle tue cellule. Come pensavo, loro non hanno capito quello che stava succedendo, hanno cominciato una lotta per la sopravvivenza l’una contro l’altra senza riconoscere il vero nemico. Una volta in tilt, le ho convinte facilmente a lavorare per me, così ora sono al comando di un battaglione ferocemente omicida e inconsapevolmente suicida. Posso trasferirmi per cercare altre truppe mercenarie: so già che potrò trovare le piccole schiere che sto cercando nei reni, vicino al cuore, sicuramente nei polmoni.
Nelle gengive ho trovato un altro habitat ideale. Lì dove mi sono incistata l’ascesso è cresciuto quasi da sé e l’infezione ha preso piede in modo definitivo; con un leggero fremito delle lamelle posso attivare intere squadre di cellule, convinte ormai di combattere una battaglia giusta contro il loro padrone, oppressore a sua insaputa. Il sangue scorre molto veloce, portando con sé altre cellule, messaggere dell’ordine perentorio di distruzione.
Tutti gli organi ormai lo sanno.
Tutti tranne uno, il cervello; ed è proprio lui che mi sta mettendo in difficoltà, adesso. Con la sua indifferenza mi impedisce di farti rendere conto dell’importanza del mio lavoro e io non posso godere fino in fondo delle mie fatiche che appaiono, al mio orgoglio personale, alquanto diminuite. Ammetto che alla base di tutto c’è stato un mio errore: pensavo che, nel tuo caso specifico, il contenuto della tua scatoletta fosse trascurabile. Non è stato così, visto che i tuoi circuiti nervosi si ostinano a farti condurre una vita normale, come se io non mi stessi dando da fare per mettere in piedi lo spettacolo della tua fine.
Conquistare il cervello è diventato il mio obiettivo: senza più freni, per spingere oltre ogni confine il mio destino sempre più legato al tuo. Ecco l’obiettivo, diventare te e vivere in tutto e per tutto la tua vita. Anzi: farti vivere quello che io deciderò: sarai il mio inferno, il mio paradiso, la nostra redenzione dalla tua stupidità.
È bello vivere nella tua scatoletta: lì posso sentire anche certi odori che mi ricordano il passato, posso sentire suoni simili a ronzii, posso pensare in tutta tranquillità a quella che ero e a quello che ho perso scegliendo te come mio destino.
Là posso vivere all’infinito tra passato e presente, e forse è proprio questo che voglio. Voglio pensare a me, cercare dentro a questa specie di bocca che cosa resta della mia proboscide, scrutare tra le ciglia se ancora c’è traccia delle vecchie ali luccicanti. È forse questo l’unico modo per poter tornare indietro, dentro di me, e stare così per un tempo infinito e fermo.
Ma fermarsi qui non è possibile. Le schiere di cellule sono diventate eserciti: interi organi lavorano incessantemente secondo le istruzioni che avevo impartito a pochi tessuti isolati. Tutte le sostanze liquide sanno quello che devono fare e operano per un unico fine: la tua fine.
Ogni cura è vana: i medici parlano di virus sconosciuto (o batterio?): così sono io, sconosciuta anche a me stessa, visto che mai avrei immaginato di arrivare fin dove sono arrivata con te.
Ormai nemmeno io ho il controllo del tuo corpo. In mezzo alle battaglie che si vanno combattendo neppure io spesso vengo riconosciuta: ora rischio di essere distrutta da plotoni di globuli bianchi, ora da manipoli di piastrine impazzite. Come tu stai cercando una fuga dalla malattia senza trovare una via d’uscita, così io cerco disperatamente un’alternativa al mio destino che vedo sempre più chiaro. L’unica certezza, ormai, è che presto questo trambusto cesserà, tutto intorno si farà silenzio, e io dovrò trovare un’altra ragione di vita, oltre la tua.
In pochi minuti tutto il pulsare del cuore, del sangue, dei nervi, delle cellule in lotta si è affievolito. Poi si è spento. Ora si gela per il silenzio per la paralisi per l’assenza per il freddo. La temperatura del tuo corpo si è abbassata all’improvviso e ogni cellula si è cementata all’altra, in un’immobilità terribile. Il sangue si è solidificato in silenzio. Un silenzio che mi opprime. Poi il buio: le ossa sono tinte di nero. La pelle è diventata una corazza di scarafaggio. Io, unica cosa viva.
Credevo di poter tornare a esistere per me stessa soltanto con la tua morte, invece, ultima beffa del destino, sono rimasta qui sola, ancora con te. Un destino troppo complicato per me, che non so capire qualche cosa oltre le mie ciglia, il mio orifizio orale, il palpito del mio impercettibile flusso vitale.
Adesso so soltanto che devo prepararmi. Mi devo creare un piccolo bozzolo, raggomitolandomi e aspettare.
Eccomi. Dal buio completo appare il mio nuovo io: una nuova forma, una nuova vita, lo stesso destino da portare a compimento, per me e per te.
Il mio corpo ora è lungo e bianco, le lamelle che utilizzavo come zampe, ora sono mille anelli che si stringono e si dilatano in continuazione per permettermi di percorrere e ripercorrere tutto il tuo corpo. Piano piano le tue membra, i tuoi occhi, le tue labbra, i tuoi denti saranno miei: la mia bocca enorme ti divora lentamente. Scopro così un altro modo per farti esistere: assaporarti attimo per attimo e nel frattempo pensarti. Pensarti vivo, attivo, sprezzante, pensieroso, depresso ammalato impotente, solo.
Lungo le tue braccia ripercorro i tuoi movimenti: ecco le mani che tante volte mi hanno scacciato da mosca. Dentro il tuo stomaco evoco le mie scorribande tra i succhi gastrici, da agente patogeno. Ogni ricordo diventa un rimpianto, per non essere scappata prima di fronte a una vita che si faceva sempre più scura, sempre più morte.
Ora sono qui e tu non ci sei più: già finito il corpo, le ossa, l’anima, se c’è mai stata. E io cosa faccio qui, in mezzo alla polvere senza odore. A chi volgo la mia vendetta adesso, a chi il filo del mio pensiero, la ragnatela appiccicosa del mio parlare? Se non posso parlare di te, contro di te, intorno a te non posso più esistere.
Non ho più scelta: taccio, quindi muoio.