Cuore con la Q

Cuore con la Q

 

 

Le scuole cattoliche, nel periodo estivo, organizzavano i campi estivi. I genitori, in genere, erano entusiasti di queste iniziative e noi pure. Loro pagavano il giusto per toglierci sia dalla strada che dai guai e noi avremmo visto in bikini tutte le ragazze della scuola, perlomeno quelle che avevano il permesso di venire.

Giovanni, il Biondo ed io all’idea già stavamo su di giri.

Il prete/prof se ne uscì con Santa Teresa di Gallura. “No, voglio andare alle Maldive!” disse il Biondo in classe, interrompendo, come era solito fare, il flusso costante della noia degli ultimi giorni di giugno.

“Non fare il cretino! Santa Teresa di Gallura sta in Sardegna! Ed è un posto famoso in tutto il mondo per la produzione di sughero e vino Cannonau, mmm… buonooo!” Il prof a quanto pare lo conosceva bene quel vinello. “Inoltre la struttura che ci ospiterà è a pochi passi da un’enorme spiaggia bianchissima e molto frequentata. Viene da sé che non ho intenzione di fare figure di merda come al solito. Chiaro?”

Appena sentimmo Sardegna fu subito chiaro, noi quell’estate avremmo scopato! O perlomeno ce l’avremmo messa tutta. Le uniche esperienze con il mondo del sesso, per noi appena tredicenni, si riducevano alle videocassette porno, alle gare di seghe, a chi ce l’aveva più lungo, a chi era riuscito a pomiciare con Eleonora, la più bella della classe, con Silvia la più ricca della scuola, sezione b.

Prendemmo il traghetto delle ventitré, Civitavecchia/Golfo Aranci. Viaggiare di notte era già fico di suo. Rimanere svegli e non necessariamente di nascosto. Il mare al buio che rifletteva le stelle luccicare e i delfini che ci seguivano dal tramonto ipnotizzati dalle luci della nave, una via lattea trascinata tra i flutti.

Giravamo scostumati per la nave fino a che non rimorchiammo due ragazze di Napoli.

Ecco, non che abbia avute numerose storie ma ad oggi pagherei oro per ricordare perlomeno il loro viso o il loro nome, se erano carine o se ci stavano solo per scrollarsi di dosso qualche altro pretendente meno fortunato di noi. Perché la cosa era tutta lì, anche in amore; o stavi al momento giusto al posto giusto, oppure ciccia. Volevo dire pippe.

Le portammo nella sala cinema – facevano Stasera a casa di Alice.

Io e il Biondo eravamo vicini, ai lati esterni c’erano le due ragazze. Quando si spensero le luci della piccola sala ci infilammo negli ultimi posti come eravamo soliti fare sullo scuolabus, ci dava quel non so che di grandezza. Non eravamo bulli ma non ci facevamo neanche bullizzare e piuttosto che far mettere seduti i più anziani tra gli alunni, l’anno precedente, avevo rimediato una scarica di calci in bocca e di vaffanculo che mi ero dovuto tenere/avevo una testa dura come pochi.

Inizia il film con questo splendido primo piano di Ornella Muti e il Biondo mi assestò una sonora gomitata.

“Mortaccitua!” feci e me lo gustai a pomiciare lingua a lingua con la sua preda che neanche era finita la sigla “Quante deviazioni hai/ Quante deviazioni hai!”

Mi girai lentamente verso la sconosciuta che era toccata a me e già era pronta, bocca aperta e che buon sapore la sua lingua – di certo quella sapeva baciare e anche bene! Non ebbi neanche il tempo di emozionarmi, di far accelerare il battito cardiaco. Ci stava, punto. Fortune.

Di quel film ricordo solo la colonna sonora che ogni tanto interrompeva i dialoghi. Ma va bene così, pensavo.

Il campo era cominciato una meraviglia!

Arrivati all’ex convento dei padri maristi, Giovanni si sistemò in una camerata che ospitava la maggior parte dei nostri compagni/e d’istituto. Il coglione si era portato le lenzuola della Lazio. Tante piccole aquile che gli facevano rimediare sistematicamente numerosi scappellotti dietro al collo, ma lui se ne fregava.

La sua fede calcistica, sebbene discutibile, l’aveva ereditata dal nonno che lo portava allo stadio e sfortunatamente gli era morto davanti qualche tempo prima, facendogli recapitare dai suoi, come eredità, un gagliardetto bianco celeste; ora sapete tutto.

Io e il Biondo in tenda, assieme a due nostre compagne di classe, Teresa detta il Sorcio” per il suo inconfondibile look da tute del mercato e scarpe grattate in qualche magazzino del popolo o comprate dai ricettatori delle parti nostre e Sonia, “la Tettona”, per ovvi motivi da quinta di reggiseno. Nonostante la sua statura non eccelsa.

Misteri di quando hai quell’età. Sorvolerò sul fatto che una scuola cattolica facesse dormire nella stessa tenda maschi e femmine, riconducendo il tutto a questioni di organizzazione dello spazio, ma per ragazzi come noi che si avvicinavano al mondo del sesso proprio in quegli anni, insomma, l’avessero saputo le mamme delle povere malcapitate, non so come l’avrebbero presa, ma buon per noi!

Proseguiamo. Sonia e Teresa erano inseparabili. Dalla fermata dell’Acotral che le scendeva davanti la scuola fino ai pomeriggi assolati all’oratorio, che vedeva il tramonto rinfrescare le altalene e i canestri dei campetti di basket, non si perdevano mai di vista. Il loro buffo assortimento, così diverse tra loro, rappresentava quasi un sogno erotico. A volte un incubo.

Teresa le aveva un po’ tutte contro. Completamente piatta. I capelli di un riccio esagerato, spesso sporchi, con qualche ciocca appiccicata qua e là, acne su tutto il viso. Ma era forte però. Sempre la battuta pronta, e di quelle che a volte non avrei fatto neanche io. Questo le faceva prendere punti. Era una di quelle persone che a casa poteva anche non studiare, le bastava ascoltare pochi minuti di lezione in classe per memorizzare tutto ed essere preparata alle interrogazioni. Personalmente passavo tutti i pomeriggi al telefono con lei prima di uscire perché mi faceva i compiti e mi ci telefonava persino, per passarmeli. Misteri di quando hai quell’età.

In questo Sonia mi somigliava. Non era stupida ma non si applicava nello studio. Aveva già le idee chiare su tutto. Anzi, dicevano che era l’unica della classe ad aver già fatto l’amore e di certo non se ne vergognava.

Non era alta e non era neanche bellissima ma aveva due supertette che rappresentavano semplicemente… tutti i nostri desideri. Cercavo sempre di toccarle. Sempre per gioco eh, ma lei alla fine non ci faceva più caso. “Dai fammele vedere! Dai tira su la felpa!” La tormentavo e lei alla fine un giorno m’ha chiuso dentro uno sgabuzzino della palestra che conoscevamo in pochi, e me le ha fatte vedere. Belle cose davvero. Quella è stata l’immagine reale che ha veicolato tante fantasie erotiche della mia adolescenza.

La prima notte scoprimmo che Sonia russava e, a parte qualche risata perché mi ricordava i rumori notturni di mio padre, si sentiva per tutto il convento, anche se noi avevamo praticamente la tenda piantata in un giardino laterale ai margini dell’orto, appena fuori il portone d’ingesso. La cosa era molto seria, non ci faceva dormire. Io e il Biondo, quella sera, ci sparammo la nostra prima sega.

Diceva: “Fidati, si fa così, me l’ha detto Laurenti!” “Ah, vabbè se te l’ha detto lui…”

Laurenti aveva un centinaio di vhs porno. Non erano sue ma del fratello più grande e le affittava a tutta la scuola, tranne a noi due. Non si fidava. Diceva che gliele avremmo perse, mandando il fratello su tutte le furie, o aveva paura che le avremmo affittate a nostra volta per pagare il debito con lui. Cosa che facevamo di frequente.

Solo l’anno dopo entrò in affari con noi! Lui forniva il materiale, noi lo affittavamo e ci steccavamo seimila lire a film in tre. Belle cose davvero. Io mi ci pagavo la merenda che mia madre non aveva mai il tempo di prepararmi e il Biondo le goleador. Per le quali aveva una tossicodipendenza. Oltre a quella per Sensible Soccer.

E niente. Insomma in quella calda sera di luglio, lontano da occhi indiscreti e dentro una tenda piantata su una terra mitica, prendevamo dimestichezza con la masturbazione giovanile.

Venne prima lui in un misto di emozioni, fiatone e occhiaie profonde come le grotte che visitavamo tra gli scogli nelle nostre escursioni giornaliere fuori dal gruppo. Gli uscirono due gocce contate di sperma. Io niente da fare, non venivo mai e cominciava pure a farmi male. Ma era solo una cosa temporanea. Dovetti aspettare un paio di sere per spruzzare senza controllo tutto quello che avevo da dare, cercando poi di ripulire gli zaini accatastati al lato della veranda o gli asciugamani che Teresa aveva piegato con ordine meticoloso. Ci presi gusto a fare su e giù, e negli anni successivi divenni un grande fan della cosa!

Insomma, ogni sera si andava in scena. Sonia cominciava a russare e noi cominciavamo a toccarle le tette!

“Che spettacolo!” Appena smetteva di russare facevamo uno scatto… sdraiati a far finta di dormire, ricominciava, ricominciavamo pure noi. Poi cominciammo anche a baciarla un po’ ovunque, come si fa con quelle statuette iconiche, portate in processione per tutto il paese, con le vecchiette vestite di un nero rigoroso a sbavarci sopra le proprie preghiere, ma lei niente, non si svegliava mai – a volte penso che se ne accorgeva pure e ci lasciava fare.

Penso pure che Teresa sapesse tutto quanto, o perlomeno lo immaginasse mentre era girata dall’altra parte aspettando il suo turno, che però non arrivava mai. Spallucce. Credo che il fatto di non aver successo con i ragazzi, in quei momenti lì giocasse a nostro favore, forse il pensiero di venire sfiorata le avrebbe fatto piacere, quel piacere che comincia come un gioco ma poi ti fa crescere.

“Sai cara quei due la notte non fanno altro che toccarmi le tette… come mi piace! Vedrai che lo faranno anche a te… ah scusa tu ancora non le hai… Ti toccheranno il culo allora, quelli sono due maiali… mmm, non vedo l’ora che venga sera!” Questa era la teoria del Biondo, per me invece era improbabile. Ma solo perché ancora non avevo ben chiaro in testa che quando le ragazze parlavano tra loro erano proprio come noi. Stessi sogni, stessi desideri, stesse voglie.

Il meccanismo era chiaro: ogni sera uguale a quella prima. Aspettavamo che Sonia s’addormentasse e poi sotto con le tette. Fino a che la cosa non ci bastava più. E niente, passata ormai la metà della settimana, con una discreta dose di coraggio, tra risate strette tra i denti più che perversione, le tirai su la camicia da notte!

Che alle fine era una maglietta molto larga, le arrivava appena sotto le mutandine da bambina, tutto sommato a tredici anni quello eravamo. Verde acqua, due gatti neri vestiti da infermieri e una vignetta ormai sbiadita che non si leggeva più. Appena sotto c’era la scritta: “Cuore con la Q”. Sicuramente era un gadget di qualche casa farmaceutica o di quelli che puoi prendere, quando doni il sangue, insieme alla colazione.

La alzai il più possibile, stando super attento a fare pianissimo, tanto da scoprire le mutande bianche. Un conto era una palpatina ma cazzo, si fosse svegliata mezza nuda, non so come l’avrebbe presa. Ma le regole del gioco erano quelle, e nessuno di noi due voleva fermarsi. Il cuore mi scoppiava nel petto e mi veniva troppo da ridere ma non potevamo fare rumore, così giù volavano certi cazzotti: “Zitto, non ridere, ché si svegliano!” Ma no, non si son mai svegliate. L’euforia era solo nelle nostre stupide teste di cazzo.  

Sonia era lì davanti a noi, come un grosso profiterole alla crema/splendida, una foca sdraiata sulle altre ad ululare alla luna/russare vabbè. Tutta quella pelle dorata, un buon odore di bagnoschiuma al cocco, e una montagna di capelli nerissimi a coprirle quasi i capezzoli. Il Biondo non ce la faceva più e neanche io. Si cominciò a masturbare in ginocchio, venne in un minuto e fece un casino. Lo sperma cadde un po’ sulla camicia da notte e un po’ su di lei. “Cazzo e adesso?”

Ridevamo come matti. Come due matti veri. Quelli che incontravamo quando l’auto ci lascava al bivio e passavamo davanti all’ospedale psichiatrico e ci facevano paura. Ma poi c’avevamo preso confidenza tanto da capire che, tutto sommato, non erano poi così matti come volevano far credere a tutti. Era solo una questione di fiducia. Le tolsi lo sperma dalla fronte, quello fra i capelli lo lasciai lì dov’era.

Il chiodo fisso del Biondo era che, una sera di quelle, Sonia si sarebbe svegliata e ce l’avrebbe succhiato a tutti e due, ne era proprio convinto e insisteva. “Ci pensi cazzo… si sveglia e ci fa una pompa, da paura, da pauraaaa!” Solo che quella non si svegliò mai, neanche per sbaglio! E neanche Teresa, sulla quale avremmo tranquillamente ripiegato tutti e due, senza mai dircelo in faccia però.

La settimana passò veloce. Senza farsene accorgere, la Sardegna ci era entrata dentro come un tuono squarcia un albero secolare, la crema pasticcera farcisce i bignè, una chiave arrugginita incastrata in un lucchetto dimenticato chiuso. Tornai a casa con uno zaino pieno di risate e mutande da lavare, e due occhiaie così profonde che sembravo un panda.

Sono passati più di vent’anni da quell’estate. Io e Giovanni giochiamo a calcetto tutti i lunedì sera, ogni tanto viene pure il Biondo. La madre gli ha aperto una pizzeria e lui è sempre lì, controvoglia.

Lunedì scorso eravamo sotto la doccia, e appena finita la partita il Biondo se ne uscì con questa storia: “Ti ricordi la sborrata in faccia alla tettona, eh! Te la ricordi?” Io non risposi ma mi venne duro.