Beni di cattivi
Una goccia del caffè che Lara Dicale stava catapultando giù per la gola, e che Nico d’Idi, seduto a 500 km di distanza, innaffiato di acqua non caffeinica e neanche potabile, di sicuro avrebbe invidiato, ricolorò il tavolo metallico della mensa e la realtà in cui nessuno scrive approfondimenti su opere letterarie che non esistono, tipo le Pustole Mortali a Luciano, nome di un presunto trattato di epoca romana che il suo capo, presidente di un’azienda di energia rinnovabile, le aveva proposto come possibile argomento di un articolo ambientalista per la rivista ambientalista del figlio ambientalista; il suo capo che come al solito scombinava e infettava tutto: i piani, la concentrazione, i titoli di opere filosofiche di età neroniana come le Epistole Morali a Lucilio, e lei annuiva più per contratto che favore – però il lavoro, quel lavoro, era un prestito di gratitudine e di autostima, per esaurire quel debito che le era stato notificato quella volta, sulla nave da crociera.
Tre anni prima. Con quanto rimaneva del fondo universitario aveva comprato due biglietti per una crociera sul Mediterraneo, solo lei e il suo ragazzo. La nave era una grossa casa itinerante biodiversa munita di tutto, saloni, sale d’attesa, sale da pranzo, discoteche, pub, country club, camerieri e animatori che formavano una sinistra famiglia provvisoria a trentadue denti, per la quale lui, il suo fidanzato, nutriva un entusiasmo che lei, Lara, non capiva né condivideva. Riuscì a capirlo, senza condividerlo, in occasione del buffet notturno in esterna Rischio Congestione, a cui, per la quarta sera consecutiva, il suo ragazzo aveva preferito il torneo di Bocce sotto le stelle. Ecco. Quando lo scoprì in compagnia di un’animatrice svedese, le fu chiaro che le bocce per cui lui andava matto non avevano esattamente a che fare con le attività sportive da pensionati.
Da lì in poi, la vita di Lara fu un precipizio di cinque buffet quotidiani.
Questo fino alla pausa fra il tè con i pasticcini e la cena del secondo giorno, che finì in un caleidoscopico WC adiacente, non a caso, alla fastosa sala da pranzo – tutt’altro che la scarna mensa di acciaio dove il capo ape regina buzzava a proposito di classicisti in fuga, Foresta Nera e morti di cantanti – Sieg. Sieg si era suicidato. Il punto è che, al nono piano di una meganave attraccata a Mykonos, a tiranneggiare non era stato il suo stomaco (che, c’è da dirlo, si era comunque scatenato a spedirle roba su e giù per tutto l’apparato digerente, come se qualcuno stesse premendo a ritmo stroboscopico i pulsanti di un ascensore), ma era stato tutto il senso di colpa per quel vulcano di calorie che lei aveva immagazzinato e perso, senza reversibile possibilità di utilizzo. Per tutti gli inservienti che guadagnavano qualche cicca di sigaretta per preparare cibo o ripulirlo. Per le colate di sciacquone sotto di lei, gli alberi espatriati per pulirle il culo, la benzina, la plastica, i bagni chimici; il protagonismo dell’ingiustizia; il rancore, per sé e per il resto, e Sieg aggiunse le parole, la melodia, l’intensità. Beni di cattivi. Inno ambientalista ultrapop che per coincidenza o per elezione fu trasmesso a un volume maggiore del colpo di coda dello scarico, a incolparla così esplicitamente (il cattivo sei tu) da farle decidere di buttare a mare laurea, fidanzato, cattive abitudini consumiste, e dare un senso durevole alla propria vita: Non. Essere. Cattiva.
Quindi eccola a compiacere il capo che le offre/impone di scrivere questo pezzo in tre giorni, perché, capisci, suo figlio aveva ingaggiato un letterato che aveva dato buca all’ultimo, poi lei poteva farlo, poteva scriverlo, era ambientalista e laureata in lettere; e anche se (lei sapeva che) le lettere erano moderne, e delle Epistole ricordava appena titolo, autore e pretesto, accettò: era questo che le veniva chiesto. Avrebbe comportato una presa di coscienza. O una promozione.
In quanto ai tre giorni, avrebbe addensato le ore come se il tempo fosse stato una tazzina di caffè bio imbottita di zucchero di canna, che, fra l’altro, era stato l’unica fonte alimentare di Nico d’Idi sulla tratta auto Milano-Foresta Nera, in uno pseudo-digiuno che lo aveva graziato dai rischi insiti nell’obbligo morale di doversi tuffare nel gelido fiume tedesco dove sua sorella, Anna, stava facendo il morto quand’era arrivato.
Per mancanza forse di voglia (lei) e di alternative (lui) erano ancora ingolfati nei loro vestiti grondanti, dentro una capanna dalle falde fatte di pannelli solari, seduti accanto a un fornello elettrico che sapeva di resina.
Anna fece gli onori di casa. «Carino, qui, vero? E a impatto zero.»
Le sue ossessioni ambientaliste la circondavano come un’aura isolante in grado di non lasciare tracce su ciò che toccava, di non farglielo voler toccare. O forse Nico aveva gli occhi bagnati. Si sporse in avanti, anche troppo; disse: «Ascolta. Anch’io sono ambientalista: compro biologico, uso energia verde, stavo scrivendo un articolo ad hoc sulle Epistulae Morales ad Lucilium… ma, qui è… radicale. Il punto è che la virtù, la vera virtù, è sempre integrata al compromesso. Io, per esempio, prendo sempre i mezzi pubblici, ma se c’è un’emergenza, come ora, non disdegno la macchina. Non è giusto?»
Anna smise di studiare la polvere sul tavolo. Lo squadrò.
«No.»
«Santo…»
Se si evitò una doccia di tè dopo il bagno nel fiume, è perché non aveva ancora la tazza in mano.
«Ti ho appena salvato la pelle!»
«Mi stavo lavando. L’ho già detto. E so pensare, io. Quando mi butto in un fiume so se mi voglio suicidare oppure no.»
«Però hai tentato di ucciderti, due giorni fa! Senza dire niente a nessuno! Perché, percome!»
«Te lo dico perché, allora.»
Nonostante il maglione, Nico inspirò profondamente. «Allora?»
«Sieg.»
«Chi?»
«Sieg. Il cantante. O dopo Virgilio non c’è nessuno per te?»
Borbottò immusonito che esistevano molti poeti latini postvergiliani; Anna sorvolò.
«Non lo seguivo. Ma avevamo le stesse idee. Speranza sulle stesse basi. Era… amichevole. Ma poi si è ucciso, e tutta una serie di coincidenze mi ha fatto credere…»
«Aspetta. Ma è quello delle pale eoliche?»
«…che forse era meglio.»
«Ma la sua grammatica fa schifo!»
«E ci ho provato.»
Qualche ora dopo. Il capo le aveva messo a disposizione una stanzetta più segregata che appartata per ultimare il pezzo durante le ore di lavoro, o almeno iniziarlo. Solo una lampada, una scrivania di traverso, computer e faldoni scaffalati. Un orologio. Lancette palleggiavano secondi come palline da ping pong. Ugualmente Lara Dicale palleggiava un pensiero per Sieg, uno per il PDF delle Epistulae, testo originale a fronte, per ogni ispirante evenienza; I: Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi…
E tutta una dissertazione sul congruo utilizzo del tempo letta in italiano perché, con quell’aitante incipit, Seneca doveva essersi già giocato la sua quota di retorica flamboyant per lettera; che poi (palleggiando) aveva una cadenza alla Sieg: Vìndicàtetìbi: Bènidìcattìvi. Strofinò via quell’alone di distrazione dallo schermo del computer; pensò che per tre giorni (!) quella gloriosa epistola starring la morte, da intendere come pericolo dell’imminenza, poteva bastare; aggiungere ambientalismo, cuocere tre giorni (!). Grandioso. Però… (cercò il testo di Beni di cattivi, lo scorse con ammirazione…).
Il tempo va, veloce come il vento
In fondo vedi già il non ritorno
Corri prima di tardi, non sei fatto
Per conservare tutto giorno dopo giorno
Sostituisci all’apocalisse la morte ed è uguale. Cambiamento da apportare o schivare in fretta. E così, grazie all’incrocio fra letteratura classica e ideali moderni, Lara scannerizzava ogni singola parola con piacevolissima fluidità, ma il lettore laser s’inceppò presto: Conservare tutto giorno dopo giorno. Forse anche Seneca aveva parlato di invertire la tendenza nell’ottica di combattere una conservazione ultraviolenta, il danno mortale di un’isometria. Controlla, ma prima cerca di capire. Testò alcuni complementi oggetti maligni: conservare abitudini errate, cultura della plastica e dei combustibili, una carriera inutile, (non) mai tempo, che so, per leggere, per lo sport; non tutte cose che minacciano di trasformare il pianeta in un tizzone ardente, ma le consentirono di affacciarsi sugli ingranaggi del mantenimento, paradossalmente sempre in movimento per macinare lei e il resto.
Interruttore in su. Slittare sul PDF. Trovare in Seneca tracce di conservazione tossica. Trovò in realtà elogi di conservazione salvifica. Dare valore al tempo. Dopotutto “conservazione” è nel vocabolario ambientalista: se equivale a non alterare certi parametri, merita stima e tanta gloria nei media; forse per questo (scheda due) Sieg non imponeva di non conservare, ma rimpiangeva: Non sei fatto. Cioè: hai un DNA da macchinetta che sputacchia CO2 e non da profumatore per ambienti, o per l’ambiente. Allora l’uomo è destinato a inquinare, strizzata di angoscia, nessuna via di uscita, a meno che… (Un flash non captato, poi un altro:) curiosa ricorrenza del termine vento, forse implicito paragone vento-tempo:
Il vento va, usa le pale eoliche
Tutto è perso, che non hai goduto
Il vento va, ma trattienilo con te
E dagli del contenuto
Non siamo cattivi gratuitamente: la cattiveria si riflette su risorse violate o, peggio, sprecate: i beni, appunto. Significati densi sbocciavano in un’alba rovente, pale eoliche volteggiavano all’orizzonte: volteggiavano, non mantenevano né conservavano. Convertivano moto in energia, transito in risultato (che poi sarebbe ridiventato transito, ma per ora non importava). Sfruttare non è sprecare: è lecito cavalcare onde marine per produrre energia verde, non lasciar andare il flusso, il moto, il vento, o il tempo, incrociando metafore. Niente resta uguale, ma si svuota o riempie a seconda dei casi. Lo diceva Sieg, faccia da MTV, fidanzato platonico, anima con cui aveva aperto un canale telepatico di comunicazione accennata; il significato dei suoi testi si sposava con i neuroni di lei, diventava intuizione. Sprone, vita. Ma lui si era suicidato. Aveva buttato gli spiccioli di contenuto giù nel pozzo, poi si era buttato lui. Lara rimandò la questione a un’altra volta. Si premiò con un cioccolatino.
Il fumo della tazza gli sbraitava sulla barba mentre lui sbraitava che era impensabile suicidarsi per quello, la morte se autoindotta deve essere mediata da un ragionamento iperrazionale e inevitabile, irreversibile, domino, e era sbagliato, sbagliato, che–
«Sono d’accordo con te» lo frenò Anna.
I muscoli facciali di Nico si paralizzarono su faccia.
«Quando gli altri mi hanno trovato con un masso legato in vita, non mi stavo per buttare. Stavo pensando.»
Dieci centimetri di gabbia toracica in più. «Un po’ di senno, finalmente.»
«Credevo: se spreco e non posso fare altrimenti, non devo esistere. Ma se a sprecare è un bambino di tre anni, merita di morire anche lui? È troppo. Davvero. Quindi ho cambiato idea.»
«Eureka!» Slanciata in aria, trascinandosi un lembo angolare di maglione ancora intriso a mo’ di mantello, la manica fradicia di Nico irruppe fra i capelli quasi asciutti di lei. «È l’inizio di una vita più saggia, della saggezza degli antichi, fraterna, consigliera. Non il testo scritto da chissà chi di… questa diavoleria moderna.»
Lei tentò di sfilarsi, ma il braccio di Nico la inseguì.
«Sai cosa ti manca? La struttura, la regolarità. Potresti iscriverti a filosofia e aprire un conto in banca, trovare una casa, una famiglia, stabilità. La vera ataraxìa è svincolata da desideri e alte aspirazioni. È costanza.»
«Veramente, il mio sforzo qui è più costante del tuo.»
Ma ormai, occhi estasiati e indice puntato in alto pitturavano la trance oracolare di Nico.
«L’ataraxìa non è la continua ricerca del piacere, ma neanche privazioni continue; sta, come ci insegnano gli antichi, nel giusto mezzo, la metriòtes. Per questo, cara Anna, essere radicali non è giusto. Ed è anche stupido: tanto, alla fin fine la materia si ricicla da sola; gli atomi sono sempre atomi, l’acqua è sempre acqua; non serve un’ossessio…»
Anna era riemersa nel suo campo visivo davanti a lui, stringeva al petto un fagotto grinzoso, di colore incatramato, come un sacco della spazzatura o un borsone made in China. «Nico, grazie, ma io ho già un’idea di quel che fare nella mia vita.»
«Sì, ma ce l’hanno anche gli stoici, ad esempio.»
«No, no, senza scomodarli. Ti spiego.» Sempre in piedi, a gambe larghe, sportive. «Prima di uccidersi, Sieg diceva che se tutti abbiamo un impatto, dobbiamo renderlo il più positivo possibile.»
Un sorriso stirato le suddivideva geometricamente il volto. Nico si accartocciava per il fastidio di non essere ascoltato ma si allungava per la curiosità.
Come vele gonfiate dal vento, davanti a lui si spiegarono «Due paia di pantaloni da motociclista, taglia M e XL,» che tendevano verso terra con la stessa intransigenza del filo a piombo.
«Prenderò la M. Grazie.»
«Mi sa che non ci siamo capiti,» disse lei, gentilmente; «è che non ho magliette, e per compensare ho pensato che potresti metterteli tutti e due. Uno sull’altro.»
«Per compensare?»
«Ma sì, come dicevi prima. Facendo la media. Se non prendi mai la macchina lo puoi fare una volta per tanti chilometri perché in media… insomma, zero magliette e due paia di pantaloni dà una media di abbastanza stoffa per tutto il corpo, no?»
Intermittenti contrazioni muscolari nelle iridi tradivano una risata sommessa, sleale, ironica. La chiave per decifrare. Nico decifrò: «Che bel giochetto di retorica! Prendi le mie affermazioni e me le ritorci contro con qualche sofisma! Eh eh! Ma io sono superiore a queste cose, e ti assecondo, perché tanto so che ho ragione.»
«Come vuoi.»
Dopo un quarto d’ora, di nuovo davanti a Anna, i doppi pantaloni lo obbligavano a una camminata lenta e spaziosa, da film western, più da sceriffo sovrappeso che da cowboy.
Declamò la battuta che aveva preparato: «Come sto?»
«Ah, benissimo,» lei sorrideva, poi qualcosa come una clava gli incrinò il cranio, e svenne.
Tutte le porte della ditta, corridoio per corridoio, le si erano sprangate dietro. Meccanismo d’allarme per contenere inondazioni o incendi, o espellere parassiti del capitale aziendale dagli uffici, in particolare dalla mensa. Poco male. A casa aveva un congelatore e non aveva paura di usarlo. Una vaschetta di gelato da un chilo, un cucchiaio sommozzatore e la solitudine. Tutto nella norma.
Quella mattina il capo aveva dimostrato che nella stanzetta più segregata che appartata, nonostante la scrivania pretestuosamente di traverso, due persone c’entrano, anche senza che B chieda il permesso a A. B è il capo. B chiede se può leggere un’anteprima dell’articolo; per impedirglielo Lara inizia a incatenare le braccia negli angoli più astrusi e si avvale della sua vicinanza kamikaze al computer, ma lui passa alle minacce professionali. Alla fine B aveva sgranato gli occhi sulla pagina di Word più infamante della vita di A. Le aveva domandato cos’era quello. Gli aveva risposto che era una lista di alcuni fondi sfitti nel circondario e non, per aprire un negozio. Le domandò perché lo stesse facendo. Perché Sieg le aveva detto che doveva usare bene il suo tempo. E quando gliel’aveva detto, Sieg? Mentre stava lavorando al pezzo. Due giorni prima. E lei aveva galleggiato sull’improduttività, così, per 8x3=24 ore retribuite? Non tutte e ventiquattro ancora, però…
Così Lara si ritrovò a casa, a recriminare la propria perenne distrazione, a colpi di cucchiaio un po’ in fronte e un po’ in bocca; si lasciava attrarre sempre da qualcosa di più dolce, qualcosa di grande che la manteneva piccola, mentre tutto il resto, statistiche, offerte, Seneca, macigni per nervi allenati, la aspettava in cagnesco. Ma non era colpa sua, pensò. Vero. Non era colpa sua. Lei, ora come sulla nave, stava girando a vuoto su un grammofono sordo, poi Sieg aveva calato la puntina come Artù aveva estratto la spada dalla roccia e la musica era iniziata e lei era inciampata sull’assicella e caduta, e tutto il resto era impallidito, tranne lei. E Sieg. Era stato casuale ma così mirato da sembrare causale. Estraneo, ma organico con la sua vita, metabolizzato in cellule, parte di sé. L’unico che la persuadeva, la innescava. Tutto il resto gliel’avevano forzosamente calato nel campo visivo come un burattino, strombazzato nelle orecchie come una vuvuzela, e non era niente, anzi, era un palazzo Lego, scomposto da tutta la gente a cui roba tipo Seneca piaceva già secoli fa così da dimostrare perché dovrebbe piacere a tutti, e poi ricomposto senza pietà, pixelato, senza curarsi di strutture biologiche, i filosofi avevano le viscere da qualche altra parte come le mummie egizie, la stessa vitalità e lo stesso effetto horror. E poi, qual era il problema? Sieg, Seneca, la morale non cambia. Solo che Sieg 1-Seneca 0. Sieg le aveva stimolato la concentrazione per allacciarsi a un computer fino alle due di notte in cerca di informazioni produttive. Nessuno le aveva fatto i complimenti. Eppure…
Si era dimenticata che ore fossero. Il cucchiaio rimbalzò sordo sul tavolo. La vaschetta di plastica le chiese dov’era finito il chilo di gelato, in soli cinque minuti. La famigerata concentrazione era esaurita, per sempre. Niente più negozio. Tanto, era già volato via, una fuga romantica con il portafoglio del capo. Fine del sogno. Ma se i sogni erano morti, aveva campo libero per uccidere gli incubi. E una volta morti gli incubi, sarebbero rinati i sogni. Era un circolo vizioso. Pura teoria. Il mondo esulava dalla speranza. Decise di darsi due, facciamo tre ore, per fare qualcosa di buono e cambiarsi la vita. Altrimenti, avrebbe comprato una corda.
Al suo risveglio i capelli di Anna sfrangiavano la luce. Era sdraiato. Lei no.
«Abbiamo la tua auto. Te la restituiremo solo se approverai le nostre misure per compensare il carburante del viaggio.»
Mugugnò mentre immaginava il clan hippy di sua sorella che ingrassava l’abitacolo di fumo non meglio identificato e cantava e ballava Let The Sun Shine In sul tettuccio, su imbeccata metronomica del clacson. Mugugnò di nuovo.
«Memorizza. Valgono sei mesi. Non mangiare derivati animali o cibi prodotti a più di 50km di distanza. Fare almeno un minuto di apnea ogni ora, comprese quelle notturne. Non usare carta igienica.» Mise in luce o in penombra un oggetto, per dire: «Bere massimo questa quantità di acqua al giorno.»
E dall’alto gli allungò una fiaschetta d’alluminio, formato superalcolici. Aveva sete; bevve. Ma il sorso rinculò in uno sputo petrolifero, e lui arrivò quasi a strozzarsi: «Ma che acqua è questa?»
«Hai detto tu che l’acqua è sempre acqua, no?»
Le mosche che brucavano intorno alla pozza sulla destra furono meno enigmatiche. Ma i postumi della clava si facevano sempre sentire e solo una parte del suo cervello tagliata fuori dalla comunicazione comprese. Il resto sbuffò: «Uffa. Ho il GPL.»
«Tranquillo. Il programma di smaltimento include anche il ritorno.»
«Non le posso fare, tutte le cose.»
«Ma devi compensare. Oppure viaggiare in treno. O ti devo dire quanto inquinamento produci?»
Sbuffò, a testa ruotata: «Voi siete terroristi psicologici.»
«E tu sei un suicida. Il tuo atteggiamento ci fa male e non te ne accorgi. Sei attaccato alle tue cose, sei convinto che niente cambierà; non ti senti dipendente, drogato della tua normalità? Di buonsenso? Ecco, il buonsenso non può più esistere. È troppo tardi.»
Nico contribuì al dialogo con la versione vocale di un punto interrogativo.
«È contorto, perché alla causa non anteponete neanche il benessere, anteponete l’automatismo. Non è sciocco? Non si possono trovare altre soluzioni più… utili? Cosa chiederesti di fare, a me?»
Ripeté: «Io non le posso fare, tutte le cose.»
«Infatti! Perché se anch’io, qui, passassi la mia vita a compensare punto e basta, avrei fatto prima a buttarmi nel fiume. Non capisci che bisogna smetterla con questo mito? Calcolare di avere un impatto? Positivo? Che comincia dall’avere il minimo impatto negativo?»
La saliva affluiva più delle parole. «Il tuo impatto è farmi capire, vero?»
«Il mio impatto sarà mettere in pratica quello che gli altri dicono. Te, Sieg. Intanto te. Siete tutti teoria, ma io starò nella realtà. E sarò cattivissima.»
Sembrava così maestosa, così arancione. Così brumosa da non avere esistenza individuale ma risonanza collettiva. Quando scoprì che la invidiava scoprì che aveva ragione, forse, lei.
«Ok, ok. Torno con il treno. L’impatto positivo, tutto il re…»
«Non sai quanto sono felice. Mi allunghi una mano?»
Lo fece.
«L’altra?»
Lo fece.
Gli bloccò i polsi con una cannuccia ripiegata a otto che strozzava la circolazione sanguigna. «Ok. Adesso, però, per sicurezza, ti facciamo vedere come si compensa sul serio. Un bel giro sulla giostra. Heinrich?»
Nico, mentre veniva preso in braccio da un tedesco spuntato da chissà quale caverna, chiese: «Aspetta. Quale giostra?»
Poi non disse più nulla.
Quando, staccati gas e corrente, donate le scorte alimentari, chiuse le finestre, portata la spazzatura (etichetta della corda nautica compresa) ai rispettivi cassonetti della raccolta differenziata, consegnato anche l’ultimo borsone di vestiti alla pubblica assistenza, rincasò per l’ultima volta, il cappio pendeva dalla trave in direzione di uno sgabello dal sottile riflesso azzurro, che era anche la sua direzione. Guardò l’ultima volta il cellulare, perché, magari, negli ultimi cinque minuti aveva salvato il mondo senza accorgersene, e sarebbe stato bene saperlo. Nessuna nuova notizia.
Il tempo limite per accertarsi della solidità delle sue speranze era stato superato, doppiato, aggirato, ma non aveva fatto che peggiorare, rivelando che scadenze inascoltate erano già nelle promesse concepite da giovane, cinque, dieci anni fa, e che il tempo aveva segato una dopo l’altra tutte le opzioni con il suo fare da falegname pazzo. E ora restava solo una soluzione.
Con i suoi metodi tarantiniani, a metà fra agenzia pubblicitaria e cella terroristica, lo Zucchero di Napalm (Napalm Sugar) fu formato dall’ecologista italiana Anna d’Idi. Secondo la leggenda la prima cavia del gruppo fu lo stesso fratello della d’Idi, il letterato Nico, che dopo qualche oscuro mese trascorso nella Foresta Nera tornò a Milano a piedi, si rasò i capelli e tagliò in due tutti i suoi calzoni per ottenerne pantaloncini formato ciclista.
Perché il suo passato era stato solo un crogiolo di auto-promesse e tentativi che sbattevano la testa contro il muro; passivo, depresso; e il suo presente era sempre così, passivo, depresso, quasi già trascorso, inglobato, anch’esso, e statisticamente, il suo futuro sarebbe stato allo stesso modo, e avrebbe bastonato, passiva, depressa, ogni possibile briciola di forza di volontà. La sua esistenza era stata, era e sarebbe stata spreco. (Il mondo) non poteva più permetterselo. Come la sua pazienza non poteva permettersi più di fronteggiare Loro. In fondo era Loro, la colpa, se i suoi propositi in comune con la F1 avevano solo gli sbandamenti, e non la potenza. E non li poteva neanche lasciare, per quella cazzo di ammenda da €50.000 in caso di rescissione del contratto.
Il giorno del suo licenziamento Lara Dicale si recò in un negozio di bricolage alla ricerca di un modo per imbavagliare il frigorifero. Con stupore realizzò che in vendita non si trovavano versioni eco o almeno prodotte in Europa degli articoli più richiesti. Fece qualcosa. Ora sta abbastanza bene.
Avevano monopolizzato il senso della vita. Gli stringevano la mano per quell’intervista in cui confessava intenti vegani, poi gli ficcavano in mano preziosi menù in caratteri dorati che erano il tripudio della carne bovina. E non era insormontabile in sé, sarebbe bastato commutare un inchino servile in un inchino da showman con tanto di paternalistico cappello a cilindro e andarsene, il punto è che questi dietro le quinte, un amore per le mazze da golf che sterilizzava l’idealismo, venivano facilmente subodorati anche dalla gente che brancolava ai piedi del palco, e così tutto quello che diceva autenticamente automaticamente si trasformava in finzione e lui non era più Simone, o una persona; non bastava più pararsi con le bugie popolari che negli album e soprattutto ai concerti mediava, trasmetteva, implicava: comunicare, sponsorizzare non giustificava il sacrificale spreco di energia elettrica e plastica e benzina e tutto quello che veniva masticato dalla macchina e non dalla musica, perché tanto lo recepivano falso, il suo messaggio, e in fondo era falso, Beni di cattivi, la speranza, solo un pretesto per rimanere vivi e mascherare che saliva su quel palco perché, anche se il pubblico aveva la sua quota di gioia, era intorno al suo, di piacere, che tutto ruotava e molto si svuotava, ma era già molto vuoto, e non voleva morire ma doveva farlo perché non era più una persona. Non Simone. Non una persona.
Molte persone hanno condiviso gli stessi atomi, solidi, liquidi, gassosi o spirituali, di Sieg. Ciascuno di loro ha i propri conti aperti con i bicchieri monouso, ma c’è chi grazie a lui ha iniziato a saldarli.
Sullo sgabello, afferrò la corda. Da tanto tempo non preparava nulla con le sue mani senza ausilio meccanico; qui nessun motore acceso nel montare la corda intorno alla trave, prima, e intorno al collo poi. Forse un nuovo inizio, un indizio, ma scalciando rimase sospeso, dondolando come uno scacciapensieri, solo, in silenzio. Si dice che in punto di morte si riveda la vita passata, ma, in questo caso, lui contemplò la sua morte futura: un sacchetto di plastica monouso sprecato per la sua fune monouso, la sua fune monouso battuta all’asta all’affannoso prezzo di mille polmoni umani, gli streaming e gli album bruciati come candele in suo nome, orribili concerti in memoria, video su smartphone, notizie al telegiornale – vide e previde il bis dello spreco, lui che rientrava in scena almeno sui maxischermi, sempre inutile, solo a occhi chiusi.
A noi, da fuori, non è dato immaginare la sua eventuale, ormai agonizzante vita futura, magari scossa dalla più bieca paura e dal più sfiatato pentimento: lui solo avrebbe avuto il diritto di farlo, rigenerarla, perfino cambiare. Ma, nelle audiodescrizioni dei suoi ultimi pensieri, non troveremmo riscontro di un’ultima risposta. Simone morì, infatti, con una domanda:
Avrò spento il cellulare?