Chi è questa bambina?
“Chi è questa bambina che sorride?”, chiedo, mentre me ne sto seduta a terra a gambe incrociate sotto al pesante album di foto in cuoio bordeaux. Mia madre non risponde, si sta preparando per una serata a teatro.
“Chi è questa bambina?”, insisto, mentre lei infila il piccolo binocolo e un fazzoletto ricamato nella pochette.
“È la nonna”, risponde con aria assente.
“La nonna?”
“Si, la nonna quando era incinta e aspettava tuo padre.”
“Ma a me sembra una bambina zingara, era mascherata da zingara?”
Mia madre infila di corsa le scarpe – quelle di pelle lucida nera, quelle coi tacchi sottili come calici di bicchieri, quelle che desidero più di ogni altra cosa al mondo – aggancia l’orecchino destro, il sinistro, ripassa il rossetto, contrae le labbra, fa una smorfia.
“Dove sono i miei guanti?”
Ah, i guanti di pizzo nero... Non ho il coraggio di dirle che l’ultima volta che li ho visti erano in bocca ad Andrè Breton, il nostro cane.
“No, non era mascherata, tua nonna era proprio una zingara.”
Vola via avvolta da una nuvola di colonia 4711. Io resto seduta a terra, senza riuscire a mettere insieme le due cose: la bambina terribilmente zingara e la signora terribilmente elegante appena uscita dalla stanza. Cerco nell’album altre tracce della vita di mia nonna Virginia, ma non c’è niente.
L’avrei incontrata qualche anno più tardi: il corpo aveva perso la grazia della fotografia, i folti capelli neri erano ridotti a una capigliatura rada e opaca, l’andatura s’era fatta lenta e disarmonica. Una donna sciatta, distante, altrove, che sembrava avesse lasciato un manichino al suo posto per gestire il minimo indispensabile delle formalità. E nessuna emozione a trapelare da quel viso dalla bellezza irregolare e consumata.
Noi bambini restavamo in silenzio a guardarla. Lei, posata a terra la valigia, chiese i nostri nomi e, prima che potessimo rispondere, si era diretta nella sua stanza richiudendo la porta alle spalle. Niente male come inizio, pensai.
Oltre a dare l’impressione di non voler mai entrare in contatto con gli altri, la nonna, strana, lo era già nell’aspetto: lo sguardo laterale, protetto da folte ciglia, somigliava a quello di certi cani da caccia e le palpebre pesanti, fortunatamente, mettevano gli altri al riparo dal nero altrimenti insopportabile dei suoi occhi.
“Perché la nonna è così strana?”, chiesi a mia madre mentre con la matassa di lana intorno ai polsi, ancheggiavo da destra a sinistra per facilitarla nell’avvolgimento di un gomitolo.
“Ha avuto una vita molto difficile, penso che sia sempre stata pazza, ma con gli anni è peggiorata.”
Prima che nascesse mio padre, la nonna aveva già perso un bambino a causa di una vita di stenti: cacciata dalla sua famiglia quando la gravidanza era apparsa evidente, era sopravvissuta a un esorcismo e a un decotto di prezzemolo che avrebbe dovuto aiutarla ad abortire. Una volta scacciato il demonio, aveva poi incontrato mio nonno, appena un anno più grande di lei, di professione manovale nei cantieri. In seguito, mia nonna perse altri due figli, e non ha mai saputo dire perché né voluto rivelare dove fossero seppelliti. Girava tutto il giorno per la città con l’unico figlio rimastole spendendo in cose futili i pochi soldi che entravano.
La rividi al funerale di mio nonno: i grandi piangevano in silenzio la perdita di un uomo profondamente buono; noi bambini, al primo appuntamento con la morte, aspettavamo un cenno per rompere le righe e tornare a giocare. Lei sembrava, invece, capitata lì per caso. Senza tristezza, sembrava piuttosto seccata perché, con almeno una dozzina dei presenti, aveva litigato e con un paio era venuta anche alle mani.
“Un’attaccabrighe, manesca e pure bugiarda”, mi spiegò mia madre mentre impastavo acqua e farina accanto a lei, nel vano tentativo di imparare a essere una brava donna di casa. “Trova sempre un pretesto per provocare e litigare e non c’è’ verso di farla ragionare.”
Accidenti, pensai, per fortuna all’epoca ignoravo Mendel, la genetica, il DNA e tutto il resto, però quando qualcuno fuori dalla cerchia familiare mi diceva: “Più diventi grande e più somigli alla nonna”, io correvo trafelata davanti allo specchio, a farmi tranquillizzare dal mio prognatismo da piccola femmina di Cro-magnon. E si sbagliavano, ché io ero proprio uguale alla mamma.
Strana, in effetti, la nonna lo era: c’era qualcosa in lei che autorizzava, se non proprio un sospetto, quanto meno uno stato d’allerta, e non somigliava né ai matti del manicomio né a quelli di fuori, essendo un po’ tutte e due le cose. Con il passare degli anni divenne sempre più bizzarra e imprevedibile, bastava una occhiata di troppo o una parola travisata per far scatenare reazioni che la facevano sembrare un vulcano nel momento di una potente eruzione. Da quel corpo minuto emanava una nube tossica che offuscava qualsiasi cosa le si parasse davanti, alienandole ogni possibilità di coltivare amicizie che non fossero quelle di persone strambe almeno quanto lei. Una piccola corte dei miracoli che condivideva con lei il rifiuto per ogni aspetto normativo dell’esistenza, il nomadismo da miseria, l’assenza del benché minimo progetto di vita, un vivere alla giornata. Come se lo scopo dell’esistenza si limitasse a reperire del cibo e un posto per dormire.
Questo, almeno, corrispondeva ai ricordi che mio padre mi confidava, mentre in macchina ci stavamo dirigendo verso l’ennesima casa di riposo dalla quale la nonna era stata espulsa per “cattiva condotta”. Fu là che facemmo conoscenza con alcune sue amiche fra l’imbarazzo e l’incredulità dei miei genitori, un giorno che le invitò: sembrava che un circo sgangherato di periferia si fosse trasferito a casa nostra, e, se devo dire la verità, a noi bambini quelle persone così insolite piacquero moltissimo. Mia madre passò il resto della serata a inondare la casa di disinfettanti e insetticidi che, all’epoca, venivano erogati con una specie di pistola semiautomatica. E comunque, il famigerato DDT, restava sicuramente più pericoloso delle bestioline che abitavano, forse, gli indumenti e il corpo dei nostri ospiti. Insomma, accadde che, quando un giorno la nonna ci raccontò che l’epidemia di “Spagnola” aveva sterminato la sua famiglia, noi tutti ci sentissimo autorizzati a pensare che questa Spagnola fosse una sua amica un po’ su di giri, tipo quelle che ci aveva presentato, e con la quale doveva aver avuto un regolamento di conti.
La vita tornò ad azzannarla nuovamente con la deportazione del nonno in un campo di lavoro in Germania: finiti i pochi risparmi, fu un susseguirsi di sfratti, allontanamenti forzati ai quali a volte provava a fare resistenza, altre no, lasciandosi trascinare via come un peso morto. Fatti tutti molto veloci, rasoiate a quella quotidianità fatta di vestiti tenuti su con le spille, niente da portare via, a parte la chitarra del nonno e un odio crescente nei confronti del mondo.
“Ho trascorso l’infanzia senza mai sapere dove avremmo dormito il giorno dopo”, ci disse papà quel giorno che, insieme alla mamma, stavamo andando a riprenderla all’ospedale, dove si era fatta ricoverare in ragione di una terribile malattia inventata. Scoperta, i medici l’avevano prontamente dimessa, ma durante il ritorno a casa non fece altro che lamentarsi, maledicendo tutta la classe medica, mio padre e – sottovoce – anche mia madre.
Del magma gelido che, come una medicazione tossica, andava riparando tutte le ferite di mia nonna, noi tutti sperimentammo il potenziale distruttivo. Quando veniva a stare da noi, la sua presenza, muta e sospettosa, creava disagio e fastidio, mia madre diventava nervosa e litigava con mio padre il quale si arrabbiava con mia nonna la quale accusava noi bambini di qualsiasi cosa sparisse dal frigorifero o – più in generale – dalla casa. Tutto il giorno senza fare nulla, non sapeva cucinare, cucire, pulire la casa, stirare, niente di niente, un imballaggio vuoto, sembrando una di quelle zucchine che mia madre svuotava dalla polpa o un brutto manichino da spostare quando era d’ingombro e, comunque, da tenere fuori dalla vetrina di famiglia.
Finiva sempre nello stesso modo, andandosene sbattendo la porta e senza salutare. A nessuno di noi dispiaceva, credo che nessuno abbia mai sentito nostalgia o dispiacere per la sua assenza.
“Hija del diablo!”, le diceva Zio Faustino tornato dall’Argentina con una bella fisarmonica argento e amaranto che non ha mai saputo suonare. E, a volte, nelle sue sfuriate, sembrava appena risalita dall’inferno a gettare scompiglio sulla terra. Credo, però, che nessuno abbia mai capito quanto fosse malata: nella difficile battaglia per sopravvivere a se stessa era sempre lei a perdere.
Non ricevette mai una lettera, una cartolina, una telefonata: “No-nnaaaa, è per teeee!” Personalmente non ricordo una carezza, un sorriso un gesto gentile, niente che potesse creare un legame con lei.
Arrivai appena in tempo. Il prete, una delle categorie umane da lei più odiate, con voce metallica e monotona le stava chiedendo di pentirsi dei suoi peccanti. Pentirsi? E di cosa doveva mai pentirsi la nonna? Sentii una rabbia montarmi dentro e mi rivolsi bruscamente al prete: “Se Cristo potesse scendere dalla croce verrebbe a chiederle scusa”, dissi spingendolo delicatamente fuori dalla porta. Vidi la nonna sorridere: toh, la nonna sapeva sorridere! Per un attimo rividi in lei la bambina della fotografia. E quando rimanemmo sole avvertii con precisione un’intimità nuova, mai provata prima.
“Non credere che non ci abbia provato”, mi disse già con un filo di voce. Poi volse lo sguardo e i suoi insostenibili occhi neri verso il respiratore. Fu un attimo: non mi sono mai pentita di quello che forse resta l’unico gesto d’amore che abbia mai ricevuto in tutta la sua vita.