PARTITUREGiulio Iovine

In tempo per l'aperitivo

PARTITUREGiulio Iovine
In tempo per l'aperitivo

Avevo due sole cose da fare, quel pomeriggio – due cose semplicissime. Dovevo andare a visitare la mostra di fotografia con Clara alle quattro, e poi trovarmi alle sei e mezza con Matteo, Rosanna e altri amici per un aperitivo al Sottofiume (quel bar che sta, appunto, vicino al mulino sul fiume). I tempi erano larghi, le distanze percorribili. Se avessi avuto l’opportunità di condurre la faccenda a modo mio, non avremmo avuto un problema. Dato che ho la brutta abitudine di non saper dire di no, ecco, succede la catastrofe.

Io e Clara ci siamo trovati davanti alla mostra, in via Vespucci, nel vecchio mattatoio. Clara, a sorpresa, ha portato il suo amico Luca, che conosco poco ma mi è simpatico. Una volta entrati, io e Luca ci siamo persi subito chi in una direzione chi in un’altra; Clara, ovvio, dopo i primi dieci minuti ha dovuto sedersi davanti a una foto di donne siberiane che conciavano pelli. Via via che giravo per la mostra, vedevo che ogni tanto provava ad alzarsi e girovagare; ma la fatica era troppa, e a un certo punto era costretta a sedersi di nuovo.

“Tutto bene? Ti vedo stanca”.

“Ho dormito poco ieri notte”, disse. “Bella camicia”, aggiunse sollevando con sforzo le ossa del braccio e toccandomi l’orlo della manica con la mano nodosa.

“Grazie”.

Mi chiesi, davanti a una foto di svedesi che giocavano a bridge, che scusa si sarebbe inventata per non mangiare nulla all’aperitivo con Matteo e Rosanna (avevo promesso di portare anche lei). Domanda oziosa, che abbandonai alla foto successiva, quella dell’invasione delle locuste sul lago Chad. E così passò il tempo. Alle cinque e tre quarti avvisai Luca che era tempo di andare, e andai in cerca di Clara, che trovai davanti a un video proiettato in una stanza buia.

“È sull’alluvione nelle Filippine”, mi disse sottovoce.

“Sono le cinque e tre quarti”, le dissi.

“Eh, ma devo finire qui”, sussurrò.

“Finisci il video e andiamo?”.

“Finisco qui, sì. Non sapevo proiettassero”, rispose a bassa voce, gli occhi fissi sull’immagine del ciclone.

Uscii dalla stanza oscura.

Luca mi aspettava fuori. “Andiamo?”.

“Clara vuole vedere il video. Poi andiamo”.

“Ok”.

E tornò a vagabondare.

Ok un cazzo, pensai, irrigidito. Se dobbiamo essere al Sottofiume alle sei e mezza con la metro, bisogna prenderla entro le sei e cinque. Poiché Clara camminava piano, non era affatto detto che arrivassimo alla fermata in tempo.

Cominciai a girare nervosamente in tondo nella sala buia. Finì il video sulle Filippine. Ne cominciò subito un altro sulla depressione in Nicaragua. Guardai il cartellone sotto il faretto incassato fuori dalla sala. Non un video: nove video, i tre premiati di tre concorsi. Clara che non accennava a muoversi. Continuai a girare in tondo e guardare l’orologio. Sperai che questo facesse passare il messaggio a Clara. Clara mi ignorò. Glielo dico, pensai. Mi avvicinai. Non glielo dissi. Glielo dico, insistetti tra me e me. Aprii la bocca. Non mi uscì nulla. (È che non sopporto di guastare le feste a nessuno, capite. È un mio difetto.) Mi allontanai, sperando che la cosa finisse in tempo. Alle sei e un quarto, disperato, l’ultimo video finalmente in corso, mandai a Rosanna il messaggio che eravamo in ritardo.

Io sono già qua, comunque. Bacini, rispose Rosanna.

Mi misi le mani nei capelli. Porca mignotta, è già là.

Clara mi si avvicinò.

“I video sono finiti”, sussurrò.

Ma cristo dio e la madonna, pensai, e grazie alla minchia che sono finiti.

“Andiamo”, dissi. “Ho già scritto che faremo un po’ di ritardo”.

Recuperammo Luca, imbambolato davanti a un set di foto di paesaggi della Nuova Caledonia.

“Ma se siete in ritardo”, disse mentre uscivamo dalla mostra.  “Non vi conviene andare fino alla metro. A quest’ora comincia il pienone. Vi accompagno io al Sottofiume in macchina”.

Magari, grazie”, sospirò Clara, mettendo avanti una gamba e poi un’altra sul marciapiede con penosa fatica. “Non so se me la sento di camminare fino alla fermata”.

E se è per questo, neanche fino alla macchina. Io e Luca eravamo già avviati di buon passo quando ci rendemmo conto che lei non era con noi; ci voltammo, ed eccola cinquanta metri indietro, immobile sulle gambe ridotte a un femore e una tibia, che muoveva impotente le braccia verso di noi, come a dire ‘no no ma va tutto bene, va tutto bene’. Luca si fermò per aspettarla, impedendo anche a me di procedere.

“Luca, dov’è la tua macchina?”, chiesi girando in tondo mentre il mio cellulare vibrava e Matteo mi scriveva dove siete? È tutto a posto?

“Vicinissima”, rispose Luca indicando un paio di strade più in là.

Arrivammo alla macchina che erano le sei e quarantacinque. Per il nervoso cominciai a strisciare i piedi sull’asfalto. Mi tremava la mano destra, chiusa a pugno. Entrammo con orrenda lentezza, chiudemmo le portiere, Luca e Clara stettero dieci minuti a tentare di programmare Google Maps sullo smartphone di Clara, vecchissimo e lento. Cominciai a passare le unghie sui sedili di pelle. Luca accese il motore e partimmo.

Ma era periodo di lavori, e c’erano, ovvio, nuovi sensi unici non ancora registrati su Google Maps. C’erano anche molte ZTL. Luca, senza una lira, non voleva pagare una multa, e così andava a singhiozzo sul lungofiume, provando a girare, poi bloccandosi, poi rallentando, poi accostando, poi ripartendo, mentre Clara non capiva come funzionava Google Maps e protestava che il problema era nel suo telefono.

“Usa il mio, è nuovo”, urlai.

“Ma ci sono un sacco di ZTL”, protestò Luca.

“Occhio che qui è senso unico”, lo avvisò Clara.

“Oh cristo”.

E cambiò strada.

“Di qui invece puoi passare, non c’è senso unico”.

“Ma c’è la ZTL”.

Confabularono. Intanto io guardavo fuori dal finestrino le macchine che sfrecciavano accanto a noi, chiotti chiotti ai nostri venticinque all’ora in un viale a quattro corsie lungo il fiume, superati dalle biciclette e da anziani sotto metanfetamina. E poi da gente che camminava normalmente sul marciapiede. E poi da bambini che andavano ciondolando senza una direzione precisa. E poi non ci stavamo muovendo più.

“Perché ci siamo fermati…?”.

“Luca preferisce aspettare le sette precise, quando la ZTL si disattiva”, rispose Clara, “così possiamo entrare in Corso Sempione e da lì sono dieci minuti al Sottofiume. Altrimenti prende la multa”.

“Ma siamo già in ritardo di mezz’ora”.

“Eh, oh. Con questi lavori purtroppo hanno imbottigliato la circolazione”.

“Luca, esci dalla macchina”.

“Eh?”.

“Esci, adesso”.

“Perché?”.

“Guido io”.

“…eh?”.

Guido io, incapace. Siamo in ritardo. Esci”.

“Giulio, datti una calmata, non…”.

“Non sopporto di essere in ritardo quando abbiamo fissato un appuntamento”, gridai sillabando nelle orecchie di entrambi. Uscii sbattendo la porta, aprii la sua portiera, gli staccai la cintura di sicurezza, lo presi per la collottola e lo scaraventai fuori. Pesava una sessantina di chili per un metro e settanta, non me ne sono nemmeno accorto. È finito di faccia sul selciato, si è rialzato tenendosi la bocca sanguinante, lo ha messo sotto una bicicletta che ha poi deragliato contro il muro del lungofiume.

Luca!”, ha urlato Clara presa dal panico. Ma io ero già salito in macchina, avevo chiuso le portiere, ed ero partito rombando verso Corso Sempione, il mio cellulare che vibrava. Prima, seconda, terza, quarta, i cinquanta i sessanta i settanta, e via in Corso Sempione con curva a tornante, sfondando un cartello stradale e travolgendo una carrozzina che volò sul parabrezza e poi sul tettuccio.

“Giulio, ma sei pazzo, fermati subito, hai ucciso un bambino!”

“La carrozzina era vuota, imbecille”, le risposi ruggendo, “altrimenti il corpo sarebbe ancora sul vetro. E piantala di urlare. È colpa tua se siamo in ritardo”.

Provò a mettere le mani sul volante, sul cambio. Ma aveva la forza di una medusa. Con un cazzotto la sbattei contro la portiera, e le lanciai il cellulare via dal finestrino perché non chiamasse aiuto. Rimase raggomitolata sul sedile in lacrime, a tenersi la testa da cui scendeva un filo di sangue.

“Stronza isterica”, gridai, “tu e i tuoi video. Non sei capace di fare tre metri a piedi e vai anche alle mostre. Ti farei internare, se potessi”.

Superai a destra un’altra macchina, ci sfasciammo il paraurti a vicenda, i vetri s’incrinarono per l’impatto. Continuai a premere sull’acceleratore, superai un camion, gli tagliai la strada, sentii il clacson urlare come la voce di Dio sul Sinai, e il camion deragliare contro la vetrina di un supermercato. Imparasse a guidare, quell’altro invertebrato. Cazzo cazzo cazzo erano le sette e un quarto, quarantacinque minuti di ritardo. Inchiodai per evitare una vecchia – mi andò a sbattere a sinistra un motorino; lo ignorai e sgommai in avanti. Cominciai a piangere di rabbia. Matteo e Rosanna erano sicuramente già lì da una vita ad aspettare noi. Forse erano arrivati anche gli altri amici. Io avevo parlato di un ritardo, non ero stato specifico. Ma quarantacinque minuti era troppo. Finalmente arrivammo davanti al Sottofiume, e parcheggiai tamponando il culo di una macchina per spostarla in avanti – altrimenti non sarei entrato nel poco spazio.

Provai a uscire dalla macchina. Cadde a terra la portiera, sfondata dalla botta di prima. Dall’auto davanti a noi mi venne incontro un tizio ripetendo a macchinetta ‘me l’hai spostata’, ‘me l’hai spostata’.

“Si vede che non avevi il freno a mano, replicai”.

“Tu questa risposta del cazzo però non me la dai, hai capito, stron…”.

Calcio nelle palle, e me lo ritrovai ai piedi in singhiozzi. Chiusi la vicenda con un calcio o due in faccia, facendogli sputare sangue e denti. Andai ad aprire la portiera a Clara. Venne giù anche questa come carta.

“Muoviti. Siamo in ritardo”.

“Giulio, ti prego, ho tanta paura”, piagnucolò raggomitolata sul sedile.

“Muoviti. Vieni. Devi venire anche tu all’aperitivo. Passi il ritardo, ma non posso giustificare anche la tua assenza”.

“No, ti prego”, ululò. Dovetti staccarle la cintura, afferrarla per un braccio e trascinarla urlante attraverso la strada, il culo ossuto che le sbatteva sull’asfalto, mentre cercava di mordermi il polso per farmi mollare la presa.

Arrivammo al Sottofiume che ero stravolto. Salutai rabbiosamente Matteo e Rosanna - seduti davanti a due calici di Verdicchio e un vassoio di patatine - che mi fecero paciosamente ciao con la mano; sbattei Clara su una sedia, afferrai una pizzetta dal vassoio e gliela ficcai in bocca, urlando: “E porcoddio mangia, cazzo di anoressica, o non arriverai al mese prossimo. Mangia”, continuai ficcandole in bocca pizzette, che lei in parte ingoiava in parte sputava, tutte impiastricciate di lacrime e bava.

Mi voltai. Matteo e Rosanna erano in piedi e mi fissavano stravolti. Così come metà degli avventori del bar.

“Giulio…?”.

“Siamo in ritardo, cazzo”, gridai. “Io odio essere in ritardo. Odio quando programmo le cose e poi non funzionano come dicevo io. È andato tutto storto oggi. Tutto. Dovevamo rimanere alla mostra meno di un’ora e ci siamo stati quasi due. Siete venuti qui e noi non c’eravamo. Non voglio nemmeno pensare al disagio che abbiamo causato”.

Matteo, pallido, rispose: “Ti abbiamo appunto scritto prima che ci sono stati dei problemi con la viabilità. Avevamo spostato alle sette e mezza. Io e Rosanna siamo venuti prima perché tanto abitiamo qui”.

“Perché stai facendo questa cosa a Clara…?”, mi chiese Rosanna avvicinandosi a lei, e abbracciandola mentre rompeva in singhiozzi disperati.

Mi sedetti. Non c’erano camerieri. Presi il bicchiere di Matteo e bevvi un sorso di Verdicchio.

“Meglio così”, dissi. “Meglio così. Sono in imbarazzo quando faccio tardi. Anche quando non è per colpa mia”.

Sospirai. Allora non eravamo così in ritardo, dopo tutto. Cominciai a rilassarmi, improvvisamente libero. Ignorai le sirene, l’ambulanza, la volante dei carabinieri, i clienti che ci circondavano increduli, Matteo che si sedeva bianco come un cadavere, i singhiozzi di Clara. Alla fine non eravamo così in ritardo. Mi sentivo già molto meglio.